Viva la storia di Molfetta!
Il sacco di Molfetta: la seconda parte del racconto
Continua l'approfondimento sull'evento più sanguinoso della storia locale
mercoledì 17 ottobre 2018
Nella prima parte della nostra storia (https://www.molfettaviva.it/rubriche/viva-la-storia-di-molfetta-1/la-storia-del-sacco-di-molfetta/), abbiamo visto cosa fosse accaduto negli anni e nei momenti immediatamente prossimi al Sacco di Molfetta; siamo stati spettatori di un periodo piuttosto controverso e movimentato per la nostra città, caratterizzato da continue tensioni fra nobili e popolani.
Come se non bastasse, a questa delicata situazione, si aggiungeva la guerra fra Spagna e Francia per il dominio sul Regno di Napoli. Venezia era all'epoca alleata con il re di Francia, e per consolidare la sua posizione nell'Adriatico aveva occupato alcune città costiere pugliesi e aveva reso Barletta e Trani, basi per le operazioni militari. I suoi comandanti collaboravano con i baroni ribelli che guidavano le truppe locali e francesi, perennemente afflitte da fame, malattie e mancanza di soldo. Nella zona interna della Puglia invece, prevalevano gli Spagnoli, guidati da Ferrante Gonzaga, che però non riusciva ad incunearsi sulla costa. Non tutte le città pugliesi parteggiavano per lo stesso sovrano: a Molfetta, Bisceglie, Giovinazzo era forte ad esempio il partito filospagnolo appoggiato dai popolani.
Fatta questa piccola, ma doverosa parentesi storica, torniamo al nostro racconto.
Eravamo rimasti al fatto che le flotte veneziane si trovavano a largo delle coste molfettesi, ed erano pronte ad attaccare. Era il 18 luglio del 1529.
I francesi e i veneziani, a corto di vettovaglie, incalzati dai nobili fuggitivi molfettesi, avevano convinto Sergianni Caracciolo, principe di Melfi a prendere la città di Molfetta e depredarla di ogni avere. Nel pomeriggio del 17 luglio Diedo Zorzi, comandante delle barche armate imbarcò a Vieste i soldati di Federico Carafa e a Barletta quelli del principe di Melfi. La flottiglia composta da 34 barche, scortate da 18 galee e tre fuste, per un complessivo numero di 1500 uomini fece vela verso Molfetta.
Anche stavolta avremo bisogno dell'aiuto del nostro Giuseppe Marinelli, il quale, con le sue parole, ci condurrà nel cuore di questa triste vicenda.
Le flotte nemiche si stavano pericolosamente avvicinando alle coste di Molfetta; un messaggero, attraverso il suono di una trombetta intimò loro la resa "dalla quale mentre viene il trombetta a concederli ch'avesse arrendersi promettendoli quiete e buon trattamento". E i molfettesi cosa fecero? Si riversarono sugli spalti delle mura della città, più per curiosità che per difenderla, non pensando ad armarsi per provvedere a resistere contro il nemico. Sembravano spettatori di un qualcosa che era a loro estraneo, sottovalutando il pericolo che invece si stava avvicinando sempre più. Ed infatti Marinelli commenta così:"...sul far del giorno comparve l'armata sopra le acque della povera città, la quale stando ancora su i pensieri delle discordie civili e standoli sul capo l'armi nemiche stimava quell'armata in giuoco […] anzi quando apparteneva a lei pigliar l'arme, et entrar nello steccato, all'ora si mise sulle mura come a ben riposata spettatrice di scena a veder i gesti della nemica armata".
Il comando della città di Molfetta era affidata a Fernando di Capua che Marinelli definisce un "giovanetto d'anni 18", il quale decise orgogliosamente di combattere e di difendere la città poiché
"non parve honesto al Capua ad una semplice voce d'una Trombetta d'aprir le Porte ai Nemici".
Molfetta non apre le porte ai nemici con un semplice suono di trombetta, sottolinea il Marinelli. Avuta così risposta negativa, il Caracciolo diede ordine di sparare contro la città a colpi di bombarde che provocarono larghi squarci contro le mura (le bombarde potevano lanciare palle di ferro e di pietre. Queste ultime urtando contro l'ostacolo, si rompevano in minute schegge che provocavano morti e feriti).
I molfettesi, con poche artiglierie a disposizione, risposero al fuoco, ma non riuscirono a colpire le flotte veneziane, e il nostro cronista spiega l'esito negativo dell'attacco in questo modo:"o per l'inesperienza del Bombardiero, o perché la Città era mal munita, o senza palle, o pure perché l'opra di qualch'uno erano sempre d'effetto vote". Il nemico allora diede ordine di portarsi fuori tiro, riprendendo il mare aperto, per prepararsi ad un nuovo assalto. A causa di questo gesto, i molfettesi a torto pensarono che il Caracciolo avesse abbandonato il desiderio di conquista dalla città, avendola reputata ben agguerrita e fortificata.
Sentendosi quindi al sicuro, e pensando di aver sbaragliato il nemico, i cittadini molfettesi decisero di inseguire l'armata veneziana con le bilancelle che avevano a disposizione nel porto, e per farlo, il 19 luglio si calarono con scale di corda dal palazzo vescovile e dalla porta del Molo.
Così Marinelli:"corsero a dileggiare quei di dentro in mille modi, d'onde dandosi animo di resistere a nemici sopra il Molo, se ne tornassero di scendere in terra, overo insultarli dietro con le barche se veleggiassero in alto, con pensiero, e fatto non men ridicolo che temerario dal muro del Vescovado soprastante della Porta del Molo calarono delle scale". Approfittando di questo, il nemico diede ordine di portarsi sotto le mura e di usare le stesse scale che erano servite ai molfettesi per scendere in mare, mentre altri soldati nemici si arrampicarono sulle mura dagli alberi delle navi; così facendo raggiunsero facilmente il torrione del porto, la casa del vescovado e altre case confinanti, e "il Muro chiamato dai cittadini la Galea della Cattedrale". Altri raggiunsero la città addirittura attraverso il condotto delle acque reflue che sfociava vicino al Duomo e che immetteva al centro della piazza del Duomo stesso, e attraverso una breccia nelle mura del palazzo vescovile, dove c'erano delle tombe vuote. Racconta Marinelli:"e per dendro il condotto dell'acque brutte, che sbocca nel Mare accanto il Cortile della sopraddetta Chiesa, e dalla rottura ch'era nel muro di lei che rispondeva a certe sepolture vacue del Vescovato". I nemici entrarono dunque in città e furono subito affrontati dal Capua e da una schiera di cittadini armati con ronconi e spiedi. Dopo un'ora di accanita resistenza, il Capua fu ferito lievemente ad un occhio ed abbandonò il campo, colpito da "certe schegge di pietra che a tutt'hore saltavano dendro la Città per il bombardare che facevano le Galere".
Molti molfettesi furono uccisi durante lo scontro, altri invece scoraggiati e demoralizzati si diedero alla fuga, lasciando così ai nemici libero accesso alla città. E così entrò dalla Porta del Molo il Principe Caracciolo, accompagnato dai suoi, dai nobili molfettesi traditori, e si rifugiò nella casa di Diomede Lepore. "In quello istesso tempo entrò pur di là Federico Carafa", scrive Marinelli, e racconta gli ultimi istanti di vita del comandante che fu colpito mortalmente sulla testa da un sasso. Non indossava l'elmo in quel momento, poiché lo aveva tolto per il troppo caldo, e questo gli fu fatale. Stava cercando di calmare gli animi dei molfettesi con gesti e parole, ma per tutta risposta i cittadini, uomini e donne, dai tetti delle loro case lo assalirono con una fitta sassaiola, e così morì in vico S. Antonio Abate. Fu poi spogliato, da un popolano, di una collana d'oro che portava al collo. Scrive il nostro cronista "per altri sentieri si inviò solo dendro la Città a capo scoperto per il molto caldo e mentre crede con parole, e gesti ritardare i cittadini, i quali ajutati sì dalle Donne tiravano all'ingiù da sopra le Case delle sassate alla ventura per difendersi, et ovviare ai sopra venienti mali, li diede all'improvviso sopra il capo sasso così grave che all'incontro del Vico S. Antonio cadde subito morto a terra; poco poi essendo spogliato d'una Collana d'oro, che teneva al collo di qualche preggio da un Villano de'nostri". Stessa sorte toccò poi al barone di Macchia che fu ammazzato con un'altra grossa sassata, mentre il Principe Caracciolo fu colpito sul piede da un grosso pezzo di tufo lanciato da un tetto nei pressi dell'arco di via Forno. La morte dei due comandanti e la resistenza opposta dai molfettesi inasprì l'animo dei vincitori che trascesero in ogni atto di violenza disumana.
Non vi fu famiglia che non subì lutti: donne, uomini, anziani, bambini, furono torturati, derisi, e poi uccisi, mentre altri pagarono ingenti somme per riscattare la loro libertà. La soldataglia francese faceva a gara per depredare i morti, spartirsi le masserizie delle case ormai occupate dal nemico.
Così commenta il Marinelli:"molti Cittadini con le famiglie abbandonate le case a preda de' Soldati […] ne furono molti dopo pagate le taglie uccisi, molti a tale facessero i riscatti tormentati, altri comché prima derisi, e poi per gioco ammazzati, altri furono a tale scoprissero le robe nascoste stimate come più care, così preziose crudelmente insino all'ultimo spirito torteggiati senza haver riguardo ad età, sesso, o ad altra autorità di persona all'usanza dei barbari". Si racconta di una donna, Rosa Picca, che per sfuggire alla violenza di un ufficiale francese, si suicidò lanciandosi dal tetto della sua casa; Marinelli lo definisce "un caso invero memorabile, e esempio di pudicizia più che Romana. Volse costei prima morire ch'esser da soldati violata". La violenza continuò per tre giorni, molti furono bruciati vivi; così tante furono le persone uccise che le strade vennero inondate da fiumi di sangue, e lungo le vie si ammonticchiarono i cadaveri che giacevano abbandonati e che ostruivano qualsiasi passaggio. L'aria cominciò a diventare irrespirabile per via dei corpi in decomposizione, e si cominciò a sospettare che circolasse qualche "morbo", ragion per cui tutti i cadaveri furono immediatamente bruciati. Il nobile Diomede Lepore scovò il popolano Giovanni di Mincio, lo colpì più volte e poi lo gettò nel fuoco ancora vivo, mentre il Bove riuscì a pagare il riscatto per lui e per la sua famiglia, ma così facendo rimase povero per sempre. I compagni del Mincio a questo punto fuggirono; alcuni di loro furono raggiunti dall'armata francese ed uccisi, altri invece riuscirono a salvarsi ma "vissero misera vita lungi dal terreni loro natio infino all'ultima vecchiaia". Il saccheggio fu così brutale, che i soldati francesi depredarono ogni cosa, anche quelle di poco valore; e poi cominciarono ad ammazzarsi fra di loro per aggiudicarsi il bottino maggiore. Ad un certo punto anche Diomede Lepore si ribellò ai suoi alleati, ed uccise due soldati che stavano aggredendo un suo zio. Il Marinelli commenta così questo riscatto finale del Lepore "Era il Dottor Diomede Lepore di sì gran animo, e sì fattamente coraggioso, che non curava ostacoli né conosceva pericoli".
La città dopo il sacco, apparve spettrale.
Non c'era più nessuno, molti erano stati uccisi, altri fuggiti, e altri ancora erano nelle prigioni in attesa che venisse pagato il riscatto per la loro libertà. I superstiti vennero poi decimati dalla peste che scoppiò nel Regno virulenta tra le truppe francesi, e che raggiunse Molfetta. Marinelli infatti racconta:"[...] rimasta la Città spopolata, e vota d'abitatori, il che si causò parte dall'uccisioni, e dalle priggioni de Cittadini tirati fuora fino ai pagamenti delle taglie promesse, e parte dalla peste, che di la a poco seguì nel Regno cagionata dalla guerra di Napoli, e attaccata nella Città di Molfetta più gravemente di tutti per li tanti disaggi patiti, assai più cessato il sacco, che non pria".
Il Principe Caracciolo dopo il sacco, soggiornò a Molfetta insieme al suo esercito per parecchio tempo. I cittadini erano costretti non solo a subire i continui soprusi e violenze da parte dei nemici invasori, ma erano obbligati anche a pagare pesanti tasse, esigendo il Caracciolo vitto, alloggio, e paga per i suoi soldati. I molfettesi, erano così tanto stremati ed impoveriti, che cominciarono a chiamare fortunati quelli di loro che erano morti durante il saccheggio "che chiamavano felici le morti successe nel sacco". Ma il Principe non si fermò qui, fece distruggere tanti luoghi sacri e di culto carissimi ai molfettesi, che reputava essere pericolanti. Così sparirono edifici del Borgo, monasteri, conventi. Ma assistere con i propri occhi alla demolizione della chiesa di San Francesco e del suo convento, della chiesa di San Bernardino e di Santo Stefano "lu fu peggiore del Sacco, e di mille morti, perché erano quei luoghi continua gioja dell'animo loro, e dove si racconsolavano delle disventure con le preghiere fatte a quei Santi". Finalmente dopo mesi di assedio, il Caracciolo e le sue truppe ed i nobili ribelli, andarono via da Molfetta, non senza prima compiere un'ultima ed efferata azione: prosciugarono le cisterne di olio della città e poi partirono alla volta di Venezia.
La guerra fra Francia e Spagna era finita, la popolazione molfettese era stata decimata, e i conflitti fra nobili e popolani spazzati via attraverso tanto dolore e sofferenze. Marinelli con rammarico ricorda che le discordie, le tensioni, le vendette non portano che danni, e ipotizza che forse Molfetta si sarebbe potuta salvare se la città fosse stata unita.
Scrive infatti:"[...] miri ciascuno a quanto ammontano le discordie Civili, e giudichino, che, se i nostri non avessero istigato quel Principe, forse non si sarebbe messo in quelle deliberazioni, né venuto giammai ai nostri danni, se la Città fosse stata unita".
Fonti:
"Presa e sacco della Città di Molfetta successa nell'Anno del Signore M.D.XXIX del Dottor Giuseppe Marinello da Molfetta" in Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli così italiani come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli. Tomo IV.
"Il Sacco a Molfetta nell'anno del Signore 1529". Il sacco di Molfetta raccontato dai ragazzi della scuola media C. Giaquinto (2009). Curatrice del testo: prof.ssa Elisabetta Mongelli.
"Le mura di Molfetta" di Cosmo Sasso.
"19 luglio 1529 dalla Cronaca di un Veneziano" di Corrado Pappagallo, pubblicato nel periodico "Molfetta nostra" (giugno-luglio 2002).
"Il sacco di Molfetta nelle relazioni dei comandanti veneti, et mai si ha visto mazor difesa" di Ignazio Pansini, pubblicato in Quindici (2003).
Come se non bastasse, a questa delicata situazione, si aggiungeva la guerra fra Spagna e Francia per il dominio sul Regno di Napoli. Venezia era all'epoca alleata con il re di Francia, e per consolidare la sua posizione nell'Adriatico aveva occupato alcune città costiere pugliesi e aveva reso Barletta e Trani, basi per le operazioni militari. I suoi comandanti collaboravano con i baroni ribelli che guidavano le truppe locali e francesi, perennemente afflitte da fame, malattie e mancanza di soldo. Nella zona interna della Puglia invece, prevalevano gli Spagnoli, guidati da Ferrante Gonzaga, che però non riusciva ad incunearsi sulla costa. Non tutte le città pugliesi parteggiavano per lo stesso sovrano: a Molfetta, Bisceglie, Giovinazzo era forte ad esempio il partito filospagnolo appoggiato dai popolani.
Fatta questa piccola, ma doverosa parentesi storica, torniamo al nostro racconto.
Eravamo rimasti al fatto che le flotte veneziane si trovavano a largo delle coste molfettesi, ed erano pronte ad attaccare. Era il 18 luglio del 1529.
I francesi e i veneziani, a corto di vettovaglie, incalzati dai nobili fuggitivi molfettesi, avevano convinto Sergianni Caracciolo, principe di Melfi a prendere la città di Molfetta e depredarla di ogni avere. Nel pomeriggio del 17 luglio Diedo Zorzi, comandante delle barche armate imbarcò a Vieste i soldati di Federico Carafa e a Barletta quelli del principe di Melfi. La flottiglia composta da 34 barche, scortate da 18 galee e tre fuste, per un complessivo numero di 1500 uomini fece vela verso Molfetta.
Anche stavolta avremo bisogno dell'aiuto del nostro Giuseppe Marinelli, il quale, con le sue parole, ci condurrà nel cuore di questa triste vicenda.
Le flotte nemiche si stavano pericolosamente avvicinando alle coste di Molfetta; un messaggero, attraverso il suono di una trombetta intimò loro la resa "dalla quale mentre viene il trombetta a concederli ch'avesse arrendersi promettendoli quiete e buon trattamento". E i molfettesi cosa fecero? Si riversarono sugli spalti delle mura della città, più per curiosità che per difenderla, non pensando ad armarsi per provvedere a resistere contro il nemico. Sembravano spettatori di un qualcosa che era a loro estraneo, sottovalutando il pericolo che invece si stava avvicinando sempre più. Ed infatti Marinelli commenta così:"...sul far del giorno comparve l'armata sopra le acque della povera città, la quale stando ancora su i pensieri delle discordie civili e standoli sul capo l'armi nemiche stimava quell'armata in giuoco […] anzi quando apparteneva a lei pigliar l'arme, et entrar nello steccato, all'ora si mise sulle mura come a ben riposata spettatrice di scena a veder i gesti della nemica armata".
Il comando della città di Molfetta era affidata a Fernando di Capua che Marinelli definisce un "giovanetto d'anni 18", il quale decise orgogliosamente di combattere e di difendere la città poiché
"non parve honesto al Capua ad una semplice voce d'una Trombetta d'aprir le Porte ai Nemici".
Molfetta non apre le porte ai nemici con un semplice suono di trombetta, sottolinea il Marinelli. Avuta così risposta negativa, il Caracciolo diede ordine di sparare contro la città a colpi di bombarde che provocarono larghi squarci contro le mura (le bombarde potevano lanciare palle di ferro e di pietre. Queste ultime urtando contro l'ostacolo, si rompevano in minute schegge che provocavano morti e feriti).
I molfettesi, con poche artiglierie a disposizione, risposero al fuoco, ma non riuscirono a colpire le flotte veneziane, e il nostro cronista spiega l'esito negativo dell'attacco in questo modo:"o per l'inesperienza del Bombardiero, o perché la Città era mal munita, o senza palle, o pure perché l'opra di qualch'uno erano sempre d'effetto vote". Il nemico allora diede ordine di portarsi fuori tiro, riprendendo il mare aperto, per prepararsi ad un nuovo assalto. A causa di questo gesto, i molfettesi a torto pensarono che il Caracciolo avesse abbandonato il desiderio di conquista dalla città, avendola reputata ben agguerrita e fortificata.
Sentendosi quindi al sicuro, e pensando di aver sbaragliato il nemico, i cittadini molfettesi decisero di inseguire l'armata veneziana con le bilancelle che avevano a disposizione nel porto, e per farlo, il 19 luglio si calarono con scale di corda dal palazzo vescovile e dalla porta del Molo.
Così Marinelli:"corsero a dileggiare quei di dentro in mille modi, d'onde dandosi animo di resistere a nemici sopra il Molo, se ne tornassero di scendere in terra, overo insultarli dietro con le barche se veleggiassero in alto, con pensiero, e fatto non men ridicolo che temerario dal muro del Vescovado soprastante della Porta del Molo calarono delle scale". Approfittando di questo, il nemico diede ordine di portarsi sotto le mura e di usare le stesse scale che erano servite ai molfettesi per scendere in mare, mentre altri soldati nemici si arrampicarono sulle mura dagli alberi delle navi; così facendo raggiunsero facilmente il torrione del porto, la casa del vescovado e altre case confinanti, e "il Muro chiamato dai cittadini la Galea della Cattedrale". Altri raggiunsero la città addirittura attraverso il condotto delle acque reflue che sfociava vicino al Duomo e che immetteva al centro della piazza del Duomo stesso, e attraverso una breccia nelle mura del palazzo vescovile, dove c'erano delle tombe vuote. Racconta Marinelli:"e per dendro il condotto dell'acque brutte, che sbocca nel Mare accanto il Cortile della sopraddetta Chiesa, e dalla rottura ch'era nel muro di lei che rispondeva a certe sepolture vacue del Vescovato". I nemici entrarono dunque in città e furono subito affrontati dal Capua e da una schiera di cittadini armati con ronconi e spiedi. Dopo un'ora di accanita resistenza, il Capua fu ferito lievemente ad un occhio ed abbandonò il campo, colpito da "certe schegge di pietra che a tutt'hore saltavano dendro la Città per il bombardare che facevano le Galere".
Molti molfettesi furono uccisi durante lo scontro, altri invece scoraggiati e demoralizzati si diedero alla fuga, lasciando così ai nemici libero accesso alla città. E così entrò dalla Porta del Molo il Principe Caracciolo, accompagnato dai suoi, dai nobili molfettesi traditori, e si rifugiò nella casa di Diomede Lepore. "In quello istesso tempo entrò pur di là Federico Carafa", scrive Marinelli, e racconta gli ultimi istanti di vita del comandante che fu colpito mortalmente sulla testa da un sasso. Non indossava l'elmo in quel momento, poiché lo aveva tolto per il troppo caldo, e questo gli fu fatale. Stava cercando di calmare gli animi dei molfettesi con gesti e parole, ma per tutta risposta i cittadini, uomini e donne, dai tetti delle loro case lo assalirono con una fitta sassaiola, e così morì in vico S. Antonio Abate. Fu poi spogliato, da un popolano, di una collana d'oro che portava al collo. Scrive il nostro cronista "per altri sentieri si inviò solo dendro la Città a capo scoperto per il molto caldo e mentre crede con parole, e gesti ritardare i cittadini, i quali ajutati sì dalle Donne tiravano all'ingiù da sopra le Case delle sassate alla ventura per difendersi, et ovviare ai sopra venienti mali, li diede all'improvviso sopra il capo sasso così grave che all'incontro del Vico S. Antonio cadde subito morto a terra; poco poi essendo spogliato d'una Collana d'oro, che teneva al collo di qualche preggio da un Villano de'nostri". Stessa sorte toccò poi al barone di Macchia che fu ammazzato con un'altra grossa sassata, mentre il Principe Caracciolo fu colpito sul piede da un grosso pezzo di tufo lanciato da un tetto nei pressi dell'arco di via Forno. La morte dei due comandanti e la resistenza opposta dai molfettesi inasprì l'animo dei vincitori che trascesero in ogni atto di violenza disumana.
Non vi fu famiglia che non subì lutti: donne, uomini, anziani, bambini, furono torturati, derisi, e poi uccisi, mentre altri pagarono ingenti somme per riscattare la loro libertà. La soldataglia francese faceva a gara per depredare i morti, spartirsi le masserizie delle case ormai occupate dal nemico.
Così commenta il Marinelli:"molti Cittadini con le famiglie abbandonate le case a preda de' Soldati […] ne furono molti dopo pagate le taglie uccisi, molti a tale facessero i riscatti tormentati, altri comché prima derisi, e poi per gioco ammazzati, altri furono a tale scoprissero le robe nascoste stimate come più care, così preziose crudelmente insino all'ultimo spirito torteggiati senza haver riguardo ad età, sesso, o ad altra autorità di persona all'usanza dei barbari". Si racconta di una donna, Rosa Picca, che per sfuggire alla violenza di un ufficiale francese, si suicidò lanciandosi dal tetto della sua casa; Marinelli lo definisce "un caso invero memorabile, e esempio di pudicizia più che Romana. Volse costei prima morire ch'esser da soldati violata". La violenza continuò per tre giorni, molti furono bruciati vivi; così tante furono le persone uccise che le strade vennero inondate da fiumi di sangue, e lungo le vie si ammonticchiarono i cadaveri che giacevano abbandonati e che ostruivano qualsiasi passaggio. L'aria cominciò a diventare irrespirabile per via dei corpi in decomposizione, e si cominciò a sospettare che circolasse qualche "morbo", ragion per cui tutti i cadaveri furono immediatamente bruciati. Il nobile Diomede Lepore scovò il popolano Giovanni di Mincio, lo colpì più volte e poi lo gettò nel fuoco ancora vivo, mentre il Bove riuscì a pagare il riscatto per lui e per la sua famiglia, ma così facendo rimase povero per sempre. I compagni del Mincio a questo punto fuggirono; alcuni di loro furono raggiunti dall'armata francese ed uccisi, altri invece riuscirono a salvarsi ma "vissero misera vita lungi dal terreni loro natio infino all'ultima vecchiaia". Il saccheggio fu così brutale, che i soldati francesi depredarono ogni cosa, anche quelle di poco valore; e poi cominciarono ad ammazzarsi fra di loro per aggiudicarsi il bottino maggiore. Ad un certo punto anche Diomede Lepore si ribellò ai suoi alleati, ed uccise due soldati che stavano aggredendo un suo zio. Il Marinelli commenta così questo riscatto finale del Lepore "Era il Dottor Diomede Lepore di sì gran animo, e sì fattamente coraggioso, che non curava ostacoli né conosceva pericoli".
La città dopo il sacco, apparve spettrale.
Non c'era più nessuno, molti erano stati uccisi, altri fuggiti, e altri ancora erano nelle prigioni in attesa che venisse pagato il riscatto per la loro libertà. I superstiti vennero poi decimati dalla peste che scoppiò nel Regno virulenta tra le truppe francesi, e che raggiunse Molfetta. Marinelli infatti racconta:"[...] rimasta la Città spopolata, e vota d'abitatori, il che si causò parte dall'uccisioni, e dalle priggioni de Cittadini tirati fuora fino ai pagamenti delle taglie promesse, e parte dalla peste, che di la a poco seguì nel Regno cagionata dalla guerra di Napoli, e attaccata nella Città di Molfetta più gravemente di tutti per li tanti disaggi patiti, assai più cessato il sacco, che non pria".
Il Principe Caracciolo dopo il sacco, soggiornò a Molfetta insieme al suo esercito per parecchio tempo. I cittadini erano costretti non solo a subire i continui soprusi e violenze da parte dei nemici invasori, ma erano obbligati anche a pagare pesanti tasse, esigendo il Caracciolo vitto, alloggio, e paga per i suoi soldati. I molfettesi, erano così tanto stremati ed impoveriti, che cominciarono a chiamare fortunati quelli di loro che erano morti durante il saccheggio "che chiamavano felici le morti successe nel sacco". Ma il Principe non si fermò qui, fece distruggere tanti luoghi sacri e di culto carissimi ai molfettesi, che reputava essere pericolanti. Così sparirono edifici del Borgo, monasteri, conventi. Ma assistere con i propri occhi alla demolizione della chiesa di San Francesco e del suo convento, della chiesa di San Bernardino e di Santo Stefano "lu fu peggiore del Sacco, e di mille morti, perché erano quei luoghi continua gioja dell'animo loro, e dove si racconsolavano delle disventure con le preghiere fatte a quei Santi". Finalmente dopo mesi di assedio, il Caracciolo e le sue truppe ed i nobili ribelli, andarono via da Molfetta, non senza prima compiere un'ultima ed efferata azione: prosciugarono le cisterne di olio della città e poi partirono alla volta di Venezia.
La guerra fra Francia e Spagna era finita, la popolazione molfettese era stata decimata, e i conflitti fra nobili e popolani spazzati via attraverso tanto dolore e sofferenze. Marinelli con rammarico ricorda che le discordie, le tensioni, le vendette non portano che danni, e ipotizza che forse Molfetta si sarebbe potuta salvare se la città fosse stata unita.
Scrive infatti:"[...] miri ciascuno a quanto ammontano le discordie Civili, e giudichino, che, se i nostri non avessero istigato quel Principe, forse non si sarebbe messo in quelle deliberazioni, né venuto giammai ai nostri danni, se la Città fosse stata unita".
Fonti:
"Presa e sacco della Città di Molfetta successa nell'Anno del Signore M.D.XXIX del Dottor Giuseppe Marinello da Molfetta" in Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli così italiani come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli. Tomo IV.
"Il Sacco a Molfetta nell'anno del Signore 1529". Il sacco di Molfetta raccontato dai ragazzi della scuola media C. Giaquinto (2009). Curatrice del testo: prof.ssa Elisabetta Mongelli.
"Le mura di Molfetta" di Cosmo Sasso.
"19 luglio 1529 dalla Cronaca di un Veneziano" di Corrado Pappagallo, pubblicato nel periodico "Molfetta nostra" (giugno-luglio 2002).
"Il sacco di Molfetta nelle relazioni dei comandanti veneti, et mai si ha visto mazor difesa" di Ignazio Pansini, pubblicato in Quindici (2003).