I rilievi dei Carabinieri
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Cronaca

Omicidio Andriani, spunta il movente passionale?

«Futili motivi», spiegano i Carabinieri. Che però non escludono altre piste

Non c'è la pista del business dell'approvvigionamento e dello spaccio di stupefacenti, come ipotizzato in un primo momento, c'è invece quella del diverbio nato per futili motivi, ma non è da escludere nemmeno un movente passionale.

Ora che si ha la certezza di chi è stato ad uccidere Antonio Andriani, il 54enne pregiudicato ferito la sera di sabato, 26 novembre, nel portone della sua abitazione di via Martiri di via Fani e morto dopo alcune ore al Policlinico di Bari, rimane da capire il motivo. «Questioni di famiglia», dicono i Carabinieri della Compagnia di Molfetta che dopo oltre 8 ore di interrogatorio hanno arrestato Crescenzio Bartoli, 44 anni, marito della nipote della vittima.

All'origine dell'omicidio ci sarebbero le continue vessazioni che il killer avrebbe subito negli anni. O almeno così avrebbe raccontato ai militari, alla presenza del magistrato Giovanni Lucio Vaira, che ha poi firmato il provvedimento di fermo, e del suo avvocato Salvatore Altamura: «Il mio assistito si è costituito volontariamente, nella mattinata di domenica, presso gli uffici della locale Compagnia», ci tiene a precisare il legale di Bartoli, raggiunto telefonicamente.

L'uomo avrebbe detto di essere stanco dei continui dispetti da parte di Andriani, il quale lo avrebbe umiliato più volte davanti ad altre persone, gli avrebbe rubato in un'occasione le reti da pesca e minacciato di forargli gli pneumatici dell'auto, trovati poi bucati. Sarebbe stata questa la goccia che ha fatto scatenare l'intento omicida. «Preferisco non esprimere valutazioni relative al movente dell'omicidio: al momento - prosegue Altamura - c'è solo un provvedimento di fermo, il mio assistito deve essere ancora interrogato dal gip».

Bartoli, secondo la ricostruzione fornita dai militari, avrebbe citofonato a casa dello zio, uno stabile di via Martiri di via Fani proprio di fronte al Comune, invitandolo a scendere. I due avrebbero litigato sul pianerottolo del piano rialzato, fino a quando la discussione sarebbe degenerata nel tragico epilogo. Durante l'interrogatorio Bartoli, accusato di omicidio premeditato, ha riferito d'essersi procurato per caso la pistola con la quale ha ucciso lo zio trovandola nascosta in un muretto a secco di un casolare di campagna.

Una vicenda dai contorni ancora poco chiari (il mistero è legato anche all'arma utilizzata per compiere il delitto) che non convince Felice Petruzzella, difensore di Andriani: «In questo momento la famiglia del signor Andriani non può che chiedere, direi pretendere, rispetto per un uomo che non ha ancora avuto degna sepoltura. Le indagini - continua - sono, ovviamente, ancora in corso e quanto sembrerebbe essere stato dichiarato dall'indagato a giustificazione della azione omicidiaria sembra già apparire, almeno in parte, inverosimile e dettato dall'esigenza di alleggerire la propria posizione».

Insomma, se le modalità sono ormai quasi praticamente certe, gli inquirenti molfettesi, diretti dal capitano Vito Ingrosso, sono adesso concentrati sul movente, essenzialmente su due possibilità. Da un lato i futili motivi, dall'altro una spiegazione più passionale, anche se non meglio circoscritta, ma evidenziata da un particolare (Bartoli, sabato sera, era accompagnato dalla moglie, che però ai militari ha riferito di non immaginare il marito si recasse a casa dello zio per ammazzarlo) e da un post pubblicato su Facebook.

Insomma gli investigatori continuano a scavare nel presente dell'uomo, ma non tralasciano il passato: Andriani era legato al mondo dello spaccio di droga, condannato a 22 anni di reclusione perché coinvolto nel blitz "Reset", ma ne aveva scontati meno. «Andriani - precisa ancora Petruzzella - aveva certamente compiuto degli sbagli in passato, sbagli cui era seguita l'espiazione della giusta pena. Aveva, quindi, pagato il suo debito con la collettività, reinserendosi nel tessuto sociale cittadino in maniera onesta e dignitosa».

Nel 2013, infatti, era uscito dal carcere, aveva lavorato prima come barista e poi come intonachista: da qualche tempo stava cercando un occupazione, aveva fatto richiesta di essere affidato ai servizi sociali per scontare un residuo di pena di 1 anno. Non lo sconterà. Due giorni fa è deceduto. E con lui, dopo Alfredo Fiore, ammazzato nel 2014, scompare un altro dei protagonisti della storia criminale degli anni '90 molfettesi, di una città che divenne uno dei più organizzati e fiorenti mercati della droga al minuto di tutta la Puglia.

Ma stavolta l'approvvigionamento e lo spaccio di stupefacenti non c'entrano. «Ma se per "futili motivi" o per "passione" si spara un colpo alla testa di una persona - per dirla alla Matteo d'Ingeo - non osiamo immaginare se ci fossero gravi motivi o altri interessi criminali, cosa potrebbe accadere a Molfetta».
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