Cronaca
Il Ros di Bari, la Faida del Gargano, Molfetta. Il luogotenente Malerba si racconta
È andato in pensione dopo 8 anni al comando della locale Stazione: «Ho dato il mio piccolo contributo per una società migliore»
Molfetta - mercoledì 11 novembre 2020
13 anni fra missioni segrete e lotte per la legalità al Ros di Bari, prima dell'arrivo a Molfetta, al timone della Stazione dei Carabinieri. 8 anni tra i più intensi della vita cittadina. È andato in pensione il 1 ottobre scorso, dopo 35 anni di servizio nell'Arma, il luogotenente carica speciale Giuseppe Malerba.
Il 60enne ispettore, coniugato e padre di due figli, ha deciso di raccontarsi, senza lesinare particolari della sua vita militare, iniziata nel 1985, e proseguita con il corso per sottufficiali a Velletri. Numerose le destinazioni durante la sua carriera: Firenze e Roma, prima alla Compagnia di Roma Centro e successivamente al Reparto Operativo. Per 13 anni, dal 1993 al 2006, il ritorno a Bari, nei Raggruppamento Operativo Speciale. Una vita nell'ombra, al servizio dello Stato.
13 anni, di cui 2 passati a Foggia, negli anni della "Faida della Montagna", la lunga scia di sangue che ha macchiato il Gargano. A combatterla i militari del Ros, il reparto voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uomini addestrati a pensare come i criminali, per conoscerli, capirli e sconfiggerli. A partire dal 2006, poi, altri 6 anni a Bari, nel comando della Legione Puglia. Nel 2012, infine, la nomina a comandante della Stazione di Molfetta. 8 anni dopo, l'addio.
Il resto è stretta attualità: l'insediamento del luogotenente Francesco Antonino al vertice della Stazione e il clamore mediatico sollevato dai video di Vincenzo Zagami: «No comment», si limita a dire ai molfettesi, città in cui s'è conquistato una stima generalizzata per la sua professionalità e grande carica di umanità.
Dal 2012 al 2020. 8 anni intensi al comando della Stazione di Molfetta.
«In effetti sono stati 8 anni di intense attività che hanno evidenziato l'operosità poliedrica del Comando Stazione di Molfetta. Dal servizio di ordine pubblico in tutte le manifestazioni (sportive, sindacali, concertistiche, ed altro) al servizio info-investigativo passando per il servizio di polizia di frontiera o quello di polizia amministrativa.
I positivi risultati ottenuti nel precipuo settore della polizia giudiziaria sono stati diversi e derivanti essenzialmente dai numerosi arresti inerenti il traffico, lo spaccio e la detenzione di stupefacenti, le rapine a mano armata, la detenzione e il porto abusivo di armi, ma soprattutto, con l'entrata in vigore della legge 69 del 19 luglio 2019 (il cosiddetto codice rosso) la Stazione di Molfetta ha, nella quasi totalità dei casi, portato rimedio a quelle che sono divenute vere e proprie emergenze di violenze di genere.
Le risultanze, condivise dall'Autorità Giudiziaria, hanno permesso di frenare i cosiddetti reati satellite ma, soprattutto, di evitare ben più gravi conseguenze per le vittime. Analogamente le molteplici misure di prevenzione personale proposte ed ottenute, nel corso del mio comando, hanno riguardato i più disparati campi di applicazione ovvero dai Daspo in tema sportivo alle vere e proprie misure di sicurezza disposte dall'Autorità Giudiziaria».
Qual è stato il suo motto?
«"usi lavorar tacendo e tacendo gioir" ovvero un personale adattamento al motto proprio dell'Arma dei Carabinieri datato 1814 che recita: "usi obbedir tacendo e tacendo morir"».
Prima di Molfetta, 13 anni al Raggruppamento Operativo Speciale di Bari: un'attività vissuta nell'ombra, ma infiltrato in ogni livello sociale. Quali ricordi ha?
«Quell'attività ha rappresentato un segmento importantissimo della mia vita lavorativa. Ho avuto la possibilità di spaziare, nelle investigazioni, dalla criminalità organizzata barese (dal clan Muolo di Monopoli ai clan Capriati, Parisi, Montani e Strisciuglio di Bari) a quella della Capitanata, durante la quale ero a capo del pool costituito per quel tipo di criminalità organizzata (la "Società" di stanza a Foggia e, prevalentemente, quella garganica), o quella internazionale che ha consentito di sgominare uno dei cartelli colombiani più potenti al mondo che operavano dalla Sierra Nevada (in Colombia) sino al confine con il Venezuela ovvero il cartello dei Mejia Munera soprannominati "Los Mellizos".
Inoltre, in collaborazione con le Polizie inglesi, greche, venezuelane, colombiane e la Drug Enforcement Administration americana, l'operazione cosiddetta "Journey" ha consentito di sequestrare 16 tonnellate di cocaina, 2 navi e arrestare numerosi consociati in Venezuela, Colombia, Grecia, Albania e, chiaramente in Italia».
Ha lavorato sul Gargano, negli anni della sanguinosa faida fra i Libergolis (originari di Monte Sant'Angelo) e gli Alfieri-Primosa e, più di recente, con i Romito. Anni di sangue, morti e lupare bianche.
«È stata una sfida dell'antistato allo Stato. Il mio ricordo va alla requisitoria dell'allora pubblico ministero di Foggia che esordì con la testuale affermazione: "Paragonare proporzionalmente gli omicidi commessi in trent'anni nell'area garganica a Milano, equivarrebbe a dire che in quest'ultima città si potrebbero contare, nello stesso periodo, 1.800 omicidi". Questa asserzione dà il senso di quanto forte sia stata la risposta dello Stato al termine delle indagini che, frattanto, erano state svolte da me in prima persona.
Mi sono fatto carico di passare quasi due anni nella Procura della Repubblica del Tribunale di Foggia, in una stanza blindata, dove venivano raccolti tutti i fascicoli attinenti ai tantissimi episodi perlopiù omicidiari. La faida trae origine dal reato principe di quell'area, ovvero l'abigeato e la mancata equa spartizione del provento delittuoso tra quei delinquenti. Quelli che un tempo erano "soci in affari" sono col tempo divenuti acerrimi nemici ovvero Raffaele Primosa in netta contrapposizione ai fratelli Li Bergolis (Ciccillo e Pasquale).
La faida ha inizio con l'assassinio di Lorenzo Ricucci (un contadino che alle prime ore di quel mattino aveva avuto un diverbio con i fratelli Li Bergolis) ed il ferimento di suo figlio 12enne (che si finse morto e che volle essere preso in consegna all'uscita dall'ospedale da Raffaele Primosa e non da altri). La lunga scia di sangue va oltre la famiglia anagrafica di appartenenza, e coinvolge anche chi "si macchia" di prestare aiuto o assistenza all'uno o all'altro gruppo.
Gli appartenenti a queste famiglie, che traevano sostentamenti dagli allevamenti e che erano costretti a seguire costantemente gli spostamenti delle mandrie, erano, di contro, sottoposti al pericolo di agguati che in numerose occasioni sono stati poi portati a compimento. Pertanto una buona parte della fazione dei Li Bergolis, per il timore di attentati, si è trasferita nella vicina Manfredonia dove era già stanziata la famiglia Romito, legata da vincoli di amicizia con Pasquale e Ciccillo Li Bergolis.
Va comunque detto che le cronache e le investigazioni (relativamente) recenti, hanno fatto registrare la netta frattura all'interno della stessa consorteria che ha portato all'eliminazione di diversi compartecipi. Ad onor del vero c'è stata sempre un'attenzione particolare al fenomeno garganico.
Massimo, inoltre, è stato l'impegno profuso da chi era chiamato ad intervenire in prima persona per ogni delitto perpetrato. Le consequenziali indagini solo in parte hanno portato ai risultati sperati. L'unione di tutti gli eventi connessi alla faida racchiusi in un unico filo conduttore, ovvero quello dell'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di omicidi nella cosiddetta indagine "Gargano" dei Carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale di Bari, ha fatto il resto».
Nel 2012 l'arrivo a Molfetta. Quali erano i problemi di sicurezza pubblica allora e quali oggi?
«Dal mio arrivo al comando della Stazione di Molfetta erano diverse le emergenze attinenti la sicurezza pubblica che risentiva anche dello stato di contrazione economica nazionale. Proprio tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 si sono registrate le primissime avvisaglie ovvero che alle diverse richieste dei cittadini bisognosi, l'Amministrazione comunale dovette ridimensionare il contributo e, in taluni casi, negarlo, comportando, di conseguenza, una forte problematica sociale che più volte ha richiesto il mio personale intervento e dei miei collaboratori.
Oltre a quanto appena detto, le altre problematiche erano e sono inerenti lo spaccio di stupefacenti, i furti di auto, i furti nelle campagne senza tralasciare la consistente litigiosità che è causa di distrazioni di forze. Va comunque evidenziato che anche i furti in abitazione, un tempo consistenti, hanno subito un sensibile calo nell'ultimo biennio».
Com'è cambiata Molfetta nel corso di questi anni? Sui roghi d'auto che idea si è fatto?
«Molfetta è una città laboriosa, ingegnosa e innovativa. Grazie alle peculiarità dei suoi figli migliori è divenuta un punto nevralgico e strategico dell'economia non solo regionale, ma anche nazionale se non transnazionale. Da contraltare fa, invece, la situazione della microcriminalità cittadina che, come detto, è attiva nello spaccio, nei furti in abitazione, nei furti nelle campagne, nelle piccole estorsioni ed altro.
Al mio arrivo era evidente e rilevante la presenza di una baby gang i cui componenti trattarono benefici dalle piccole estorsioni in danno di coetanei ai quali estorsero soprattutto silenzi per le piccole rapine e furti nei loro confronti e le conseguenti malefatte. Ho combattuto accanitamente questi ragazzi perché ero certo del loro crescendo criminale. Ed il seguito mi ha dato ragione ossia quelli che erano considerati microcriminali, oggi sono sottoposti a misure cautelari personali e taluni hanno accumulato condanne per decine di anni.
Sui roghi di autovetture si rimanda a quanto detto prima ossia all'alta litigiosità che contraddistingue la nostra bella cittadina. Sul punto occorrerebbe precisare che le dinamiche sono varie e diversificate. Si va dalle divergenze tra parenti che non trovano altro modo che danneggiare (incendiando) l'auto del loro parente alle diatribe tra ex conviventi. Ricordo con molto orgoglio di aver sottoposto a fermo di polizia giudiziaria un incendiario seriale.
La particolarità era che si muoveva in un ambito molto circoscritto e la difficoltà consisteva nel fatto che non aveva un luogo di dimora, ma trovava riparo in occasionali luoghi comuni condominiali tra i più disparati della città. Sta di fatto che dopo l'ennesimo incendio di autovetture (ben 5 tra vetture incendiate e tentativi di incendio) fu individuata la presenza dell'uomo, dapprima sottoposto a fermo di polizia giudiziaria, poi tramutato in una vera e propria ordinanza di custodia cautelare in carcere».
Gli 8 anni a Molfetta hanno segnato la vita professionale e privata del luogotenente Malerba. Decine gli episodi che potrebbe ricordare, fra gli altri uno che rammenta con orgoglio.
«Come carabiniere sono orgogliosissimo di aver ricoperto incarichi di altissimo prestigio. Già al Reparto Operativo di Roma mi sono occupato di una parte delle indagini sulla strage di Ustica e, tralasciando altre importanti operazioni, sino all'operazione "Change" che ha dato risalto al ampio prestigio dell'Arma dei Carabinieri a livello internazionale (soprattutto le personali ed ufficiali gratificazioni espresse dalla BKA tedesca) per terminare, poi alla Tangentopoli (Mani Pulite 1992-93) romana.
La vita professionale è stata sempre un crescendo di soddisfazioni. Uno degli episodi che non riguardano l'aspetto della repressione dei reati (ne potrei citare a dismisura), ma di umanità e che ricordo con orgoglio è attinente ad un signore che nella serata di una solita giornata lavorativa si presentò in caserma. Era tardi ed avevo promesso a mia moglie che saremmo usciti per una passeggiata. Quell'uomo mi colpì e lo ricevetti nel mio ufficio.
Mi raccontò la sua storia di sofferenza (l'avevo letta e continuavo a leggerla nei suoi occhi e mi preoccupavo). Al termine, dopo avergli consigliato il da farsi, gli chiesi, una volta a casa, di farmi chiamare da qualche suo familiare dalla sua utenza fissa al mio numero diretto. Si era fatta quasi notte ed era insistente il mio sguardo sul telefono del mio ufficio. Finalmente squillò il telefono ed io risposi. Dall'altro capo vi era la moglie del signore che chiese di parlarmi. Mi rasserenai perché ero certo che il signore avesse dato a sua moglie il mio numero diretto e quindi era a casa.
Quel signore, nei giorni successivi, mi scrisse una lettera in cui specificò che quella sera la sua intenzione era di farla finita con la vita e l'aver avuto un contatto e rassicurazioni con il comandante, dopo ripetuti ripensamenti, lo fece desistere. Ebbene, quella lettera è una delle mie tantissime decorazioni virtuali che mi onoro di averle applicate al mio medagliere personale».
Tra i tanti riconoscimenti nella sua lunga esperienza, nel 2018 ha ricevuto anche il premio come miglior comandante di Stazione.
«Come già accennato la vita del comandante di Stazione è densa di sacrifici e votata comunque ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini. L'essere vicino alla cittadinanza è stato un mio obiettivo perseguito e realizzato a scapito, purtroppo, degli affetti familiari. La mia famiglia ha dovuto unirsi nel sacrificio.
Non c'è stato Natale, Capodanno o Pasqua che mi hanno visto in famiglia, anzi, ero sì con la mia famiglia, una famiglia allargata che si incontrava nelle chiese a festeggiare la nascita del bambinello o nelle piazze ad aspettare l'arrivo del nuovo anno e di nuovo nelle chiese per festeggiare la resurrezione di Gesù mentre il mio nucleo familiare (anagrafico) era a casa in attesa del mio rientro. Non dissimile dai giorni più importanti dell'anno è stato il quotidiano. Le notti, le mattinate e i pomeriggi sono stati un continuo impegno personale e dei miei collaboratori nelle più svariate attività che ne richiedevano la presenza.
Nel corso della carriera, diversi sono stati i riconoscimenti che mi sono stati attribuiti. Come già accennato, gli encomi ricevuti hanno riguardato la conclusione delle indagini che mi hanno visto protagonista nella lotta alla criminalità organizzata da quella del sud est barese a quella stanziata a Bari e nell'hinterland senza tralasciare la mafia foggiana (la cosiddetta Società), garganica e sanferdinandese-cerignolana per approdare alla disarticolazione di organizzazioni criminali transnazionali».
Questa è la vita di un comandante, ma com'è quella della sua famiglia?
«La vita del comandante è votata ad assicurare la pacifica convivenza della cittadinanza pertanto deve cercare, necessariamente, di essere presente quando il caso lo richiede (e spessissime volte l'ha richiesto). È ovvio che la famiglia vive in uno stato che può definirsi variabile dipendente. Inizialmente le angosce, le preoccupazioni e le ansie che la mia famiglia viveva quando a casa non c'ero, hanno lasciato spazio alla rassegnazione.
Posso dire con orgoglio che ho lasciato il testimone al maggiore dei miei due figli che ormai da 5 anni fa il carabiniere in quel di Roma ed a cui ho rivolto una sola raccomandazione: "Darsi anima e corpo per servire la gente contro il malaffare e l'ingiustizia".
Un pensiero va anche a mio fratello, anche lui nell'Arma, che per diversi anni ha fatto parte della Sezione Radiomobile della Compagnia di Molfetta ed oggi, nel ruolo di sovrintendente, è effettivo alla Stazione di Giovinazzo. Ricordo quando venne destinato in Calabria e scelse di andare in una località nota per la sua mafiosità, Natile di Careri, in pieno Aspromonte. Ne fui orgogliosamente soddisfatto per la scelta in quanto impattava con una realtà criminale che non ha eguali nel mondo».
Ormai ha tolto la divisa, come vuole che venga ricordato il luogotenente Malerba?
«Come colui che ha dato il suo piccolo contributo per una società migliore».
Il 60enne ispettore, coniugato e padre di due figli, ha deciso di raccontarsi, senza lesinare particolari della sua vita militare, iniziata nel 1985, e proseguita con il corso per sottufficiali a Velletri. Numerose le destinazioni durante la sua carriera: Firenze e Roma, prima alla Compagnia di Roma Centro e successivamente al Reparto Operativo. Per 13 anni, dal 1993 al 2006, il ritorno a Bari, nei Raggruppamento Operativo Speciale. Una vita nell'ombra, al servizio dello Stato.
13 anni, di cui 2 passati a Foggia, negli anni della "Faida della Montagna", la lunga scia di sangue che ha macchiato il Gargano. A combatterla i militari del Ros, il reparto voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uomini addestrati a pensare come i criminali, per conoscerli, capirli e sconfiggerli. A partire dal 2006, poi, altri 6 anni a Bari, nel comando della Legione Puglia. Nel 2012, infine, la nomina a comandante della Stazione di Molfetta. 8 anni dopo, l'addio.
Il resto è stretta attualità: l'insediamento del luogotenente Francesco Antonino al vertice della Stazione e il clamore mediatico sollevato dai video di Vincenzo Zagami: «No comment», si limita a dire ai molfettesi, città in cui s'è conquistato una stima generalizzata per la sua professionalità e grande carica di umanità.
Dal 2012 al 2020. 8 anni intensi al comando della Stazione di Molfetta.
«In effetti sono stati 8 anni di intense attività che hanno evidenziato l'operosità poliedrica del Comando Stazione di Molfetta. Dal servizio di ordine pubblico in tutte le manifestazioni (sportive, sindacali, concertistiche, ed altro) al servizio info-investigativo passando per il servizio di polizia di frontiera o quello di polizia amministrativa.
I positivi risultati ottenuti nel precipuo settore della polizia giudiziaria sono stati diversi e derivanti essenzialmente dai numerosi arresti inerenti il traffico, lo spaccio e la detenzione di stupefacenti, le rapine a mano armata, la detenzione e il porto abusivo di armi, ma soprattutto, con l'entrata in vigore della legge 69 del 19 luglio 2019 (il cosiddetto codice rosso) la Stazione di Molfetta ha, nella quasi totalità dei casi, portato rimedio a quelle che sono divenute vere e proprie emergenze di violenze di genere.
Le risultanze, condivise dall'Autorità Giudiziaria, hanno permesso di frenare i cosiddetti reati satellite ma, soprattutto, di evitare ben più gravi conseguenze per le vittime. Analogamente le molteplici misure di prevenzione personale proposte ed ottenute, nel corso del mio comando, hanno riguardato i più disparati campi di applicazione ovvero dai Daspo in tema sportivo alle vere e proprie misure di sicurezza disposte dall'Autorità Giudiziaria».
Qual è stato il suo motto?
«"usi lavorar tacendo e tacendo gioir" ovvero un personale adattamento al motto proprio dell'Arma dei Carabinieri datato 1814 che recita: "usi obbedir tacendo e tacendo morir"».
Prima di Molfetta, 13 anni al Raggruppamento Operativo Speciale di Bari: un'attività vissuta nell'ombra, ma infiltrato in ogni livello sociale. Quali ricordi ha?
«Quell'attività ha rappresentato un segmento importantissimo della mia vita lavorativa. Ho avuto la possibilità di spaziare, nelle investigazioni, dalla criminalità organizzata barese (dal clan Muolo di Monopoli ai clan Capriati, Parisi, Montani e Strisciuglio di Bari) a quella della Capitanata, durante la quale ero a capo del pool costituito per quel tipo di criminalità organizzata (la "Società" di stanza a Foggia e, prevalentemente, quella garganica), o quella internazionale che ha consentito di sgominare uno dei cartelli colombiani più potenti al mondo che operavano dalla Sierra Nevada (in Colombia) sino al confine con il Venezuela ovvero il cartello dei Mejia Munera soprannominati "Los Mellizos".
Inoltre, in collaborazione con le Polizie inglesi, greche, venezuelane, colombiane e la Drug Enforcement Administration americana, l'operazione cosiddetta "Journey" ha consentito di sequestrare 16 tonnellate di cocaina, 2 navi e arrestare numerosi consociati in Venezuela, Colombia, Grecia, Albania e, chiaramente in Italia».
Ha lavorato sul Gargano, negli anni della sanguinosa faida fra i Libergolis (originari di Monte Sant'Angelo) e gli Alfieri-Primosa e, più di recente, con i Romito. Anni di sangue, morti e lupare bianche.
«È stata una sfida dell'antistato allo Stato. Il mio ricordo va alla requisitoria dell'allora pubblico ministero di Foggia che esordì con la testuale affermazione: "Paragonare proporzionalmente gli omicidi commessi in trent'anni nell'area garganica a Milano, equivarrebbe a dire che in quest'ultima città si potrebbero contare, nello stesso periodo, 1.800 omicidi". Questa asserzione dà il senso di quanto forte sia stata la risposta dello Stato al termine delle indagini che, frattanto, erano state svolte da me in prima persona.
Mi sono fatto carico di passare quasi due anni nella Procura della Repubblica del Tribunale di Foggia, in una stanza blindata, dove venivano raccolti tutti i fascicoli attinenti ai tantissimi episodi perlopiù omicidiari. La faida trae origine dal reato principe di quell'area, ovvero l'abigeato e la mancata equa spartizione del provento delittuoso tra quei delinquenti. Quelli che un tempo erano "soci in affari" sono col tempo divenuti acerrimi nemici ovvero Raffaele Primosa in netta contrapposizione ai fratelli Li Bergolis (Ciccillo e Pasquale).
La faida ha inizio con l'assassinio di Lorenzo Ricucci (un contadino che alle prime ore di quel mattino aveva avuto un diverbio con i fratelli Li Bergolis) ed il ferimento di suo figlio 12enne (che si finse morto e che volle essere preso in consegna all'uscita dall'ospedale da Raffaele Primosa e non da altri). La lunga scia di sangue va oltre la famiglia anagrafica di appartenenza, e coinvolge anche chi "si macchia" di prestare aiuto o assistenza all'uno o all'altro gruppo.
Gli appartenenti a queste famiglie, che traevano sostentamenti dagli allevamenti e che erano costretti a seguire costantemente gli spostamenti delle mandrie, erano, di contro, sottoposti al pericolo di agguati che in numerose occasioni sono stati poi portati a compimento. Pertanto una buona parte della fazione dei Li Bergolis, per il timore di attentati, si è trasferita nella vicina Manfredonia dove era già stanziata la famiglia Romito, legata da vincoli di amicizia con Pasquale e Ciccillo Li Bergolis.
Va comunque detto che le cronache e le investigazioni (relativamente) recenti, hanno fatto registrare la netta frattura all'interno della stessa consorteria che ha portato all'eliminazione di diversi compartecipi. Ad onor del vero c'è stata sempre un'attenzione particolare al fenomeno garganico.
Massimo, inoltre, è stato l'impegno profuso da chi era chiamato ad intervenire in prima persona per ogni delitto perpetrato. Le consequenziali indagini solo in parte hanno portato ai risultati sperati. L'unione di tutti gli eventi connessi alla faida racchiusi in un unico filo conduttore, ovvero quello dell'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di omicidi nella cosiddetta indagine "Gargano" dei Carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale di Bari, ha fatto il resto».
Nel 2012 l'arrivo a Molfetta. Quali erano i problemi di sicurezza pubblica allora e quali oggi?
«Dal mio arrivo al comando della Stazione di Molfetta erano diverse le emergenze attinenti la sicurezza pubblica che risentiva anche dello stato di contrazione economica nazionale. Proprio tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 si sono registrate le primissime avvisaglie ovvero che alle diverse richieste dei cittadini bisognosi, l'Amministrazione comunale dovette ridimensionare il contributo e, in taluni casi, negarlo, comportando, di conseguenza, una forte problematica sociale che più volte ha richiesto il mio personale intervento e dei miei collaboratori.
Oltre a quanto appena detto, le altre problematiche erano e sono inerenti lo spaccio di stupefacenti, i furti di auto, i furti nelle campagne senza tralasciare la consistente litigiosità che è causa di distrazioni di forze. Va comunque evidenziato che anche i furti in abitazione, un tempo consistenti, hanno subito un sensibile calo nell'ultimo biennio».
Com'è cambiata Molfetta nel corso di questi anni? Sui roghi d'auto che idea si è fatto?
«Molfetta è una città laboriosa, ingegnosa e innovativa. Grazie alle peculiarità dei suoi figli migliori è divenuta un punto nevralgico e strategico dell'economia non solo regionale, ma anche nazionale se non transnazionale. Da contraltare fa, invece, la situazione della microcriminalità cittadina che, come detto, è attiva nello spaccio, nei furti in abitazione, nei furti nelle campagne, nelle piccole estorsioni ed altro.
Al mio arrivo era evidente e rilevante la presenza di una baby gang i cui componenti trattarono benefici dalle piccole estorsioni in danno di coetanei ai quali estorsero soprattutto silenzi per le piccole rapine e furti nei loro confronti e le conseguenti malefatte. Ho combattuto accanitamente questi ragazzi perché ero certo del loro crescendo criminale. Ed il seguito mi ha dato ragione ossia quelli che erano considerati microcriminali, oggi sono sottoposti a misure cautelari personali e taluni hanno accumulato condanne per decine di anni.
Sui roghi di autovetture si rimanda a quanto detto prima ossia all'alta litigiosità che contraddistingue la nostra bella cittadina. Sul punto occorrerebbe precisare che le dinamiche sono varie e diversificate. Si va dalle divergenze tra parenti che non trovano altro modo che danneggiare (incendiando) l'auto del loro parente alle diatribe tra ex conviventi. Ricordo con molto orgoglio di aver sottoposto a fermo di polizia giudiziaria un incendiario seriale.
La particolarità era che si muoveva in un ambito molto circoscritto e la difficoltà consisteva nel fatto che non aveva un luogo di dimora, ma trovava riparo in occasionali luoghi comuni condominiali tra i più disparati della città. Sta di fatto che dopo l'ennesimo incendio di autovetture (ben 5 tra vetture incendiate e tentativi di incendio) fu individuata la presenza dell'uomo, dapprima sottoposto a fermo di polizia giudiziaria, poi tramutato in una vera e propria ordinanza di custodia cautelare in carcere».
Gli 8 anni a Molfetta hanno segnato la vita professionale e privata del luogotenente Malerba. Decine gli episodi che potrebbe ricordare, fra gli altri uno che rammenta con orgoglio.
«Come carabiniere sono orgogliosissimo di aver ricoperto incarichi di altissimo prestigio. Già al Reparto Operativo di Roma mi sono occupato di una parte delle indagini sulla strage di Ustica e, tralasciando altre importanti operazioni, sino all'operazione "Change" che ha dato risalto al ampio prestigio dell'Arma dei Carabinieri a livello internazionale (soprattutto le personali ed ufficiali gratificazioni espresse dalla BKA tedesca) per terminare, poi alla Tangentopoli (Mani Pulite 1992-93) romana.
La vita professionale è stata sempre un crescendo di soddisfazioni. Uno degli episodi che non riguardano l'aspetto della repressione dei reati (ne potrei citare a dismisura), ma di umanità e che ricordo con orgoglio è attinente ad un signore che nella serata di una solita giornata lavorativa si presentò in caserma. Era tardi ed avevo promesso a mia moglie che saremmo usciti per una passeggiata. Quell'uomo mi colpì e lo ricevetti nel mio ufficio.
Mi raccontò la sua storia di sofferenza (l'avevo letta e continuavo a leggerla nei suoi occhi e mi preoccupavo). Al termine, dopo avergli consigliato il da farsi, gli chiesi, una volta a casa, di farmi chiamare da qualche suo familiare dalla sua utenza fissa al mio numero diretto. Si era fatta quasi notte ed era insistente il mio sguardo sul telefono del mio ufficio. Finalmente squillò il telefono ed io risposi. Dall'altro capo vi era la moglie del signore che chiese di parlarmi. Mi rasserenai perché ero certo che il signore avesse dato a sua moglie il mio numero diretto e quindi era a casa.
Quel signore, nei giorni successivi, mi scrisse una lettera in cui specificò che quella sera la sua intenzione era di farla finita con la vita e l'aver avuto un contatto e rassicurazioni con il comandante, dopo ripetuti ripensamenti, lo fece desistere. Ebbene, quella lettera è una delle mie tantissime decorazioni virtuali che mi onoro di averle applicate al mio medagliere personale».
Tra i tanti riconoscimenti nella sua lunga esperienza, nel 2018 ha ricevuto anche il premio come miglior comandante di Stazione.
«Come già accennato la vita del comandante di Stazione è densa di sacrifici e votata comunque ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini. L'essere vicino alla cittadinanza è stato un mio obiettivo perseguito e realizzato a scapito, purtroppo, degli affetti familiari. La mia famiglia ha dovuto unirsi nel sacrificio.
Non c'è stato Natale, Capodanno o Pasqua che mi hanno visto in famiglia, anzi, ero sì con la mia famiglia, una famiglia allargata che si incontrava nelle chiese a festeggiare la nascita del bambinello o nelle piazze ad aspettare l'arrivo del nuovo anno e di nuovo nelle chiese per festeggiare la resurrezione di Gesù mentre il mio nucleo familiare (anagrafico) era a casa in attesa del mio rientro. Non dissimile dai giorni più importanti dell'anno è stato il quotidiano. Le notti, le mattinate e i pomeriggi sono stati un continuo impegno personale e dei miei collaboratori nelle più svariate attività che ne richiedevano la presenza.
Nel corso della carriera, diversi sono stati i riconoscimenti che mi sono stati attribuiti. Come già accennato, gli encomi ricevuti hanno riguardato la conclusione delle indagini che mi hanno visto protagonista nella lotta alla criminalità organizzata da quella del sud est barese a quella stanziata a Bari e nell'hinterland senza tralasciare la mafia foggiana (la cosiddetta Società), garganica e sanferdinandese-cerignolana per approdare alla disarticolazione di organizzazioni criminali transnazionali».
Questa è la vita di un comandante, ma com'è quella della sua famiglia?
«La vita del comandante è votata ad assicurare la pacifica convivenza della cittadinanza pertanto deve cercare, necessariamente, di essere presente quando il caso lo richiede (e spessissime volte l'ha richiesto). È ovvio che la famiglia vive in uno stato che può definirsi variabile dipendente. Inizialmente le angosce, le preoccupazioni e le ansie che la mia famiglia viveva quando a casa non c'ero, hanno lasciato spazio alla rassegnazione.
Posso dire con orgoglio che ho lasciato il testimone al maggiore dei miei due figli che ormai da 5 anni fa il carabiniere in quel di Roma ed a cui ho rivolto una sola raccomandazione: "Darsi anima e corpo per servire la gente contro il malaffare e l'ingiustizia".
Un pensiero va anche a mio fratello, anche lui nell'Arma, che per diversi anni ha fatto parte della Sezione Radiomobile della Compagnia di Molfetta ed oggi, nel ruolo di sovrintendente, è effettivo alla Stazione di Giovinazzo. Ricordo quando venne destinato in Calabria e scelse di andare in una località nota per la sua mafiosità, Natile di Careri, in pieno Aspromonte. Ne fui orgogliosamente soddisfatto per la scelta in quanto impattava con una realtà criminale che non ha eguali nel mondo».
Ormai ha tolto la divisa, come vuole che venga ricordato il luogotenente Malerba?
«Come colui che ha dato il suo piccolo contributo per una società migliore».