Chiesa locale
I giovani del Sacro Cuore volontari a Roma nei luoghi della carità
Cinque giorni di servizio alla “Cittadella della Carità – Santa Giacinta”
Molfetta - giovedì 6 agosto 2015
8.06
Qualcuno si è lasciato crescere la barba incolta. Qualcun altro ha indossato un vecchio cappellino, jeans vecchi e strappati. Un modo per accorciare le distanze.l Il tutto sotto gli occhi di ospiti e volontari dell'Ostello "Don Luigi Di Liegro" alla "Cittadella della Carità – Santa Giacinta" (Roma). Eccoli i giovani della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù che sono partiti nel pomeriggio di martedì 4 agosto da Molfetta in direzione Roma per vivere per cinque giorni, mattina e sera, con i «nuovi poveri», con quelli che proprio a Roma chiamano «barbone» o più elegantemente «clochard» e per capire davvero chi sono queste persone.
C'è un posto nella Capitale che pochi conoscono ma in tanti frequentano: la mensa della Caritas intitolata a Don Luigi Di Liegro. È lì che i giovani del Sacro Cuore sono andati. E li che hanno trovato gli svitati, i senza patria. Ma ci sono soprattutto uomini e donne comuni che da tempo, hanno perso tutto o gran parte di esso. Gente normale che fino a poco fa aveva un lavoro, una famiglia, una casa. Persone che la crisi ha precipitato nell'indigenza. Ci sono gli anziani, senza una casa di proprietà o che hanno subito un incidente. Ci sono i cinquantenni ridotti sul lastrico da una separazione costretti a mangiare in mensa. E' un mondo incredibile. Impensabile. Irraccontabile se non si ha la fortuna, perché di fortuna si tratta, di far amicizia e condividere i loro affanni.
Si andrà avanti per cinque giorni di seguito. Ma per le storie di ognuno l'appuntamento è in fila col vassoio, un posto in comune al tavolo, le pietanze buone cucinate da questi angeli di uomini per bene. La giornata tipo è uguale tutti i giorni. Due le mete obbligate: la colazione diurna, e la cena notturna, provvista di ostello, in via Casilina. Attendono dalle 17.30 - l'orario della cena - e si mettono in fila. Sono circa una trentina fuori dal cancello di ingresso, poi aumentano fino a toccare quota 400. Entrano in un piccolo cortile e si imbattono in un volontario della Caritas che chiede loro un documento per la registrazione. Glielo danno, dopo poco tornano con un foglietto, con sopra il loro nome valido per una cena. Il tempo di un «buon appetito» e sono dentro altri, con un vassoio in mano a scegliere cosa mangiare. Penne in bianco o col sugo, per secondo arrosto o bastoncini di pesce. E una pesca o una prugna. «Di dove siete?» commenta qualcuno. «I politici pensano ai loro interessi, noi ci pigliamo i cazziatoni per loro» borbotta qualcun altro. Nella grande sala tutti cercano un tavolo dove sedersi, si parla italiano, con accenti confusi. Molti gli immigrati. È la riproduzione in piccolo di un planisfero etnico-geografico. L'ambiente è accogliente. Vitale, persino gioioso: tavoli e sedie colorate, calendari di Giovanni Paolo II, disegni affissi sui muri. Il mondo, qua dentro, si divide in due categorie: gli habitué, i clochard che alla Caritas ci vanno da sempre, e coloro che mai avrebbero pensato di doverci finire. Occhi fissi sul piatto, mangiano in silenzio perché non sanno con chi parlare o perché provano vergogna. Anche in cortile, molti dei poveri, qualcuno di loro anche ben vestito, ha lo sguardo basso, silenzioso.
«Io ci sono abituato alle mense - dice uno di loro - da giovane lavoravo, giù in Sicilia. Poi sono venuto qui e.... Ho lavorato tantissimo - dice mostrando le mani segnate dalla fatica - e adesso non posso nemmeno fare la spesa». Parli con altri, identiche disavventure dalla vita. Alle sei di sera in via Casilina, sede della mensa notturna e dell'ostello della Caritas, è un via vai di gente con la situazioni analoghe. «Non ho più niente, tranne che questo piatto di pasta e la mia squadra del cuore: la Roma» confida un romano de Roma. Ha gli occhi lucidi ma lo sguardo fiero. La sala mensa è grande, come grande è la varietà delle storie che portano sul volto i presenti. C'è anche chi si sfoga: «ormai te devi arampica' sugli specchi se vuoi campa'. Ho smesso pure di cercarlo, il lavoro. Tanto alla mia età è inutile», dice ridendo amaro.
I "nuovi poveri" chiedono ai "volontari" mentre servono tra i tavoli, se hanno un'idea su come progettare la loro vita, il loro futuro. Le loro risposte sorprendono: «A giovanotto appena te laurei ti consiglio di andar via dall'Italia. All'estero è meglio. Trovi lavoro prima». Brevi conversazioni, interloquire lapidario, perché qui pochi hanno voglia di parlare dei propri problemi. La cena è finita. Nel cortile altri restano a parlare di calcio e di telefonini, a litigare con i propri fantasmi oppure a ridere e scherzare.
I giovani della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù resteranno ad ascoltarli e servirli ancora un po', fino a sabato, saranno lì per loro, i poveri. Per loro, invece, ogni giorno è così, sempre uguale, sempre più alla fame e alla disperazione ma in fin dei conti ti sbattono in faccia una realtà che è anche la nostra e che racconta storie di "straordinaria" quotidianità.
C'è un posto nella Capitale che pochi conoscono ma in tanti frequentano: la mensa della Caritas intitolata a Don Luigi Di Liegro. È lì che i giovani del Sacro Cuore sono andati. E li che hanno trovato gli svitati, i senza patria. Ma ci sono soprattutto uomini e donne comuni che da tempo, hanno perso tutto o gran parte di esso. Gente normale che fino a poco fa aveva un lavoro, una famiglia, una casa. Persone che la crisi ha precipitato nell'indigenza. Ci sono gli anziani, senza una casa di proprietà o che hanno subito un incidente. Ci sono i cinquantenni ridotti sul lastrico da una separazione costretti a mangiare in mensa. E' un mondo incredibile. Impensabile. Irraccontabile se non si ha la fortuna, perché di fortuna si tratta, di far amicizia e condividere i loro affanni.
Si andrà avanti per cinque giorni di seguito. Ma per le storie di ognuno l'appuntamento è in fila col vassoio, un posto in comune al tavolo, le pietanze buone cucinate da questi angeli di uomini per bene. La giornata tipo è uguale tutti i giorni. Due le mete obbligate: la colazione diurna, e la cena notturna, provvista di ostello, in via Casilina. Attendono dalle 17.30 - l'orario della cena - e si mettono in fila. Sono circa una trentina fuori dal cancello di ingresso, poi aumentano fino a toccare quota 400. Entrano in un piccolo cortile e si imbattono in un volontario della Caritas che chiede loro un documento per la registrazione. Glielo danno, dopo poco tornano con un foglietto, con sopra il loro nome valido per una cena. Il tempo di un «buon appetito» e sono dentro altri, con un vassoio in mano a scegliere cosa mangiare. Penne in bianco o col sugo, per secondo arrosto o bastoncini di pesce. E una pesca o una prugna. «Di dove siete?» commenta qualcuno. «I politici pensano ai loro interessi, noi ci pigliamo i cazziatoni per loro» borbotta qualcun altro. Nella grande sala tutti cercano un tavolo dove sedersi, si parla italiano, con accenti confusi. Molti gli immigrati. È la riproduzione in piccolo di un planisfero etnico-geografico. L'ambiente è accogliente. Vitale, persino gioioso: tavoli e sedie colorate, calendari di Giovanni Paolo II, disegni affissi sui muri. Il mondo, qua dentro, si divide in due categorie: gli habitué, i clochard che alla Caritas ci vanno da sempre, e coloro che mai avrebbero pensato di doverci finire. Occhi fissi sul piatto, mangiano in silenzio perché non sanno con chi parlare o perché provano vergogna. Anche in cortile, molti dei poveri, qualcuno di loro anche ben vestito, ha lo sguardo basso, silenzioso.
«Io ci sono abituato alle mense - dice uno di loro - da giovane lavoravo, giù in Sicilia. Poi sono venuto qui e.... Ho lavorato tantissimo - dice mostrando le mani segnate dalla fatica - e adesso non posso nemmeno fare la spesa». Parli con altri, identiche disavventure dalla vita. Alle sei di sera in via Casilina, sede della mensa notturna e dell'ostello della Caritas, è un via vai di gente con la situazioni analoghe. «Non ho più niente, tranne che questo piatto di pasta e la mia squadra del cuore: la Roma» confida un romano de Roma. Ha gli occhi lucidi ma lo sguardo fiero. La sala mensa è grande, come grande è la varietà delle storie che portano sul volto i presenti. C'è anche chi si sfoga: «ormai te devi arampica' sugli specchi se vuoi campa'. Ho smesso pure di cercarlo, il lavoro. Tanto alla mia età è inutile», dice ridendo amaro.
I "nuovi poveri" chiedono ai "volontari" mentre servono tra i tavoli, se hanno un'idea su come progettare la loro vita, il loro futuro. Le loro risposte sorprendono: «A giovanotto appena te laurei ti consiglio di andar via dall'Italia. All'estero è meglio. Trovi lavoro prima». Brevi conversazioni, interloquire lapidario, perché qui pochi hanno voglia di parlare dei propri problemi. La cena è finita. Nel cortile altri restano a parlare di calcio e di telefonini, a litigare con i propri fantasmi oppure a ridere e scherzare.
I giovani della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù resteranno ad ascoltarli e servirli ancora un po', fino a sabato, saranno lì per loro, i poveri. Per loro, invece, ogni giorno è così, sempre uguale, sempre più alla fame e alla disperazione ma in fin dei conti ti sbattono in faccia una realtà che è anche la nostra e che racconta storie di "straordinaria" quotidianità.