Cultura, Eventi e Spettacolo
Davide Potente si racconta prima di volare a Bruxelles
Lo sceneggiatore molfettese presenterà il romanzo Qualcosa da perdere
Molfetta - venerdì 22 gennaio 2016
10.29
Davide Potente, autore del romanzo Qualcosa da perdere, volerà presto a Bruxelles, il 15 febbraio, per presentare il suo libro. Lo sceneggiatore molfettese porterà nella capitale belga il volume pubblicato da ExCogita, già promosso da un capo all'altro dell'Italia. Il volume narra la storia di un gruppo di giovani universitari, alla prese con la precarietà del lavoro e della loro vita. I protagonisti del romanzo, affrontano con ironia e un fondo di silente disperazione, le conseguenze di una quotidianità che mette a disagio. Abbiamo intervistato l'autore.
Il romanzo s'intitola "Qualcosa da perdere". Cosa dovrebbero perdere i protagonisti?
Ciò che a loro manca. Allo IULM di Milano, Il romanzo è stato usato come testo didattico per fare correzioni e schede di lettura. Uno dei ragazzi diceva che avrebbe dovuto chiamarsi "Niente da perdere" perché i personaggi devono un po' improvvisare la vita; devono fare ritorno a casa perché come fuori sede non riescono a far fronte alle spese. Invece "qualcosa da perdere" è proprio ciò a cui aspirano. È riuscire a fare qualcosa di coerente con il percorso di studi. Nel momento in cui ho scritto il romanzo, la percentuale dei laureati che svolgeva un lavoro coerente con il percorso di studi, era del 30%. È pochissimo proprio perché si parla di laureati, ragazzi che hanno una formazione già avanzata e specifica. In Italia siamo abbastanza in gamba nell'arte di arrangiarci, il che va benissimo ma ad un certo punto, bisogna prendere coscienza che si stanno vanificando gli anni di studio.
Com'è nata l'idea del libro e quanto c'è di te e della tua vita?
La storia era un soggetto cinematografico nato a Bologna che poi avevo messo da parte. Aveva una scrittura molto tecnica, completamente diversa. Ho ripreso il soggetto e ho deciso di svilupparlo in romanzo, su consiglio di Giovanna Bentivoglio, editor che ho conosciuto a Roma. Mi ha suggerito di lasciar perdere tutto quello che stavo scrivendo e di parlare della mia generazione. Mi è venuto in mente questo soggetto, tutto quello che ho vissuto e quello che hanno vissuto i miei amici tra Bologna e Roma. C'è molto, quindi, di me e loro. Ho cercato però di utilizzare solo quelle cose che mi erano utili alla narrazione senza scendere nell'autoreferenzialità.
Che tipi sono i protagonisti?
Non sono eroi. Sono delle persone qualunque, incarnano una generazione intera e chiunque legge il romanzo ci vede un amico, se stesso oppure un nipote. Una delle cose che mi è stata contestata è che alcuni personaggi fossero poco caratterizzati rispetto ad altri. A me fa gioco questa cosa, non ho la necessità di descrivere perfettamente un ragazzo se è un ragazzo qualunque.
Hai detto che i personaggi sono quasi morti e quasi adatti, cosa intendevi?
Quasi morti perché ad un certo punto rischiano parecchio, si mettono in qualcosa di più grande di loro, perdendo il contatto con quello che stavano facendo. Quasi adatti perché c'è sempre un certo disagio dietro il loro vivere. Sono dei fuori sede che si sentono fuori luogo, quasi fantasmi. Non hanno un lavoro e neppure un contratto di locazione perché vivono pagando in nero l'affitto... è destabilizzante. Si tratta di casa e lavoro, due aspetti fondamentali della vita.
Cosa manca alla generazione attuale rispetto a quella dei padri?
Posso darti una risposta molto precisa. Ho avuto la fortuna di conoscere Carlo Lizzani che è stato un regista molto importante. L'ho conosciuto a Bologna, all'università, e l'ho ritrovato a Roma perché ero addetto stampa al Festival di Ostia. Gli era stato assegnato un premio e alla fine l'ho accompagnato all'auto. Ho avuto pochi minuti, in realtà, da solo con lui. Mi diceva: "ciò che è mancato alla vostra generazione è la capacità di fare gruppo". È questo, anche secondo me, che è mancato e manca ancora: la capacità di unire forze e frustrazioni per cercare poi insieme di uscirne. È ciò che fanno i personaggi del romanzo. Tutti e tre si ritrovano nella condizione di non avere un impiego, uniscono le forze e se lo inventano. Nel romanzo ci sono molti spunti di riflessione di questo tipo. L'unica risposta che in qualche modo provano a dare i protagonisti è che se la condizione è questa, tanto vale provare a fare ciò che piace.
Ci sono spunti politici?
Di politica in questo c'è né davvero poca. Dopo la laurea sei da solo, non c'è un movimento guidato, sei un po' abbandonato a te stesso, finisci l'università e devi sbrigartela da te. Vieni congedato con questo pezzo di carta, però inizia tutto lì. Sembra quasi un traguardo ma non lo è mai.
(La foto di Davide Potente è di Alessandro de Leo)
Ai ragazzi di oggi manca la speranza che le cose possano cambiare politicamente?
Sicuramente. Negli ultimi vent'anni abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto o forse sempre la stessa cosa ma da schieramenti opposti, per cui non si sa davvero di chi ci si può fidare. È chiaro che non vuol dire che i politici sono tutti uguali. Più ti avvicini a livello locale, più ti accorgi delle differenze tangibili però se mi chiedi di credere ancora in alcuni valori politici, ti rispondo che è abbastanza difficile.
Che ruolo ha l'ironia nel romanzo?
Importantissimo, anche a leggere la scheda di lettura del Premio Calvino, appare come ciò che più ha impressionato. La continua verve e tenere sotto traccia sempre un basso profilo di tragedia, sono piaciuti. Infatti il romanzo è tragicomico. Se questo libro fosse un film sarebbe una commedia ma è assolutamente tragico. Sono contento di essere riuscito a inserire entrambe le cose.
Vorresti che il libro fosse un film?
È nato come soggetto per un film e vorrei che lo fosse. La scrittura del romanzo è molto visiva, con carrelli e panoramiche, e si adatta bene alla cinematografia. C'è stato un po' di interesse da parte di qualcuno ma al momento non c'è nulla di concreto.
Di recente sei salito sul palco di Battiti Live come chitarrista di Giusy Ferreri. Qual è la tua passione più grande, musica o sceneggiatura?
Mi è capitato di sostituire il chitarrista dei K-Ant ed è stato molto bello. La passione più grande è però la sceneggiatura che è anche un lavoro. La musica è un hobby ma non ho mai pensato di fare quello per mestiere.
Il romanzo s'intitola "Qualcosa da perdere". Cosa dovrebbero perdere i protagonisti?
Ciò che a loro manca. Allo IULM di Milano, Il romanzo è stato usato come testo didattico per fare correzioni e schede di lettura. Uno dei ragazzi diceva che avrebbe dovuto chiamarsi "Niente da perdere" perché i personaggi devono un po' improvvisare la vita; devono fare ritorno a casa perché come fuori sede non riescono a far fronte alle spese. Invece "qualcosa da perdere" è proprio ciò a cui aspirano. È riuscire a fare qualcosa di coerente con il percorso di studi. Nel momento in cui ho scritto il romanzo, la percentuale dei laureati che svolgeva un lavoro coerente con il percorso di studi, era del 30%. È pochissimo proprio perché si parla di laureati, ragazzi che hanno una formazione già avanzata e specifica. In Italia siamo abbastanza in gamba nell'arte di arrangiarci, il che va benissimo ma ad un certo punto, bisogna prendere coscienza che si stanno vanificando gli anni di studio.
Com'è nata l'idea del libro e quanto c'è di te e della tua vita?
La storia era un soggetto cinematografico nato a Bologna che poi avevo messo da parte. Aveva una scrittura molto tecnica, completamente diversa. Ho ripreso il soggetto e ho deciso di svilupparlo in romanzo, su consiglio di Giovanna Bentivoglio, editor che ho conosciuto a Roma. Mi ha suggerito di lasciar perdere tutto quello che stavo scrivendo e di parlare della mia generazione. Mi è venuto in mente questo soggetto, tutto quello che ho vissuto e quello che hanno vissuto i miei amici tra Bologna e Roma. C'è molto, quindi, di me e loro. Ho cercato però di utilizzare solo quelle cose che mi erano utili alla narrazione senza scendere nell'autoreferenzialità.
Che tipi sono i protagonisti?
Non sono eroi. Sono delle persone qualunque, incarnano una generazione intera e chiunque legge il romanzo ci vede un amico, se stesso oppure un nipote. Una delle cose che mi è stata contestata è che alcuni personaggi fossero poco caratterizzati rispetto ad altri. A me fa gioco questa cosa, non ho la necessità di descrivere perfettamente un ragazzo se è un ragazzo qualunque.
Hai detto che i personaggi sono quasi morti e quasi adatti, cosa intendevi?
Quasi morti perché ad un certo punto rischiano parecchio, si mettono in qualcosa di più grande di loro, perdendo il contatto con quello che stavano facendo. Quasi adatti perché c'è sempre un certo disagio dietro il loro vivere. Sono dei fuori sede che si sentono fuori luogo, quasi fantasmi. Non hanno un lavoro e neppure un contratto di locazione perché vivono pagando in nero l'affitto... è destabilizzante. Si tratta di casa e lavoro, due aspetti fondamentali della vita.
Cosa manca alla generazione attuale rispetto a quella dei padri?
Posso darti una risposta molto precisa. Ho avuto la fortuna di conoscere Carlo Lizzani che è stato un regista molto importante. L'ho conosciuto a Bologna, all'università, e l'ho ritrovato a Roma perché ero addetto stampa al Festival di Ostia. Gli era stato assegnato un premio e alla fine l'ho accompagnato all'auto. Ho avuto pochi minuti, in realtà, da solo con lui. Mi diceva: "ciò che è mancato alla vostra generazione è la capacità di fare gruppo". È questo, anche secondo me, che è mancato e manca ancora: la capacità di unire forze e frustrazioni per cercare poi insieme di uscirne. È ciò che fanno i personaggi del romanzo. Tutti e tre si ritrovano nella condizione di non avere un impiego, uniscono le forze e se lo inventano. Nel romanzo ci sono molti spunti di riflessione di questo tipo. L'unica risposta che in qualche modo provano a dare i protagonisti è che se la condizione è questa, tanto vale provare a fare ciò che piace.
Ci sono spunti politici?
Di politica in questo c'è né davvero poca. Dopo la laurea sei da solo, non c'è un movimento guidato, sei un po' abbandonato a te stesso, finisci l'università e devi sbrigartela da te. Vieni congedato con questo pezzo di carta, però inizia tutto lì. Sembra quasi un traguardo ma non lo è mai.
(La foto di Davide Potente è di Alessandro de Leo)
Ai ragazzi di oggi manca la speranza che le cose possano cambiare politicamente?
Sicuramente. Negli ultimi vent'anni abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto o forse sempre la stessa cosa ma da schieramenti opposti, per cui non si sa davvero di chi ci si può fidare. È chiaro che non vuol dire che i politici sono tutti uguali. Più ti avvicini a livello locale, più ti accorgi delle differenze tangibili però se mi chiedi di credere ancora in alcuni valori politici, ti rispondo che è abbastanza difficile.
Che ruolo ha l'ironia nel romanzo?
Importantissimo, anche a leggere la scheda di lettura del Premio Calvino, appare come ciò che più ha impressionato. La continua verve e tenere sotto traccia sempre un basso profilo di tragedia, sono piaciuti. Infatti il romanzo è tragicomico. Se questo libro fosse un film sarebbe una commedia ma è assolutamente tragico. Sono contento di essere riuscito a inserire entrambe le cose.
Vorresti che il libro fosse un film?
È nato come soggetto per un film e vorrei che lo fosse. La scrittura del romanzo è molto visiva, con carrelli e panoramiche, e si adatta bene alla cinematografia. C'è stato un po' di interesse da parte di qualcuno ma al momento non c'è nulla di concreto.
Di recente sei salito sul palco di Battiti Live come chitarrista di Giusy Ferreri. Qual è la tua passione più grande, musica o sceneggiatura?
Mi è capitato di sostituire il chitarrista dei K-Ant ed è stato molto bello. La passione più grande è però la sceneggiatura che è anche un lavoro. La musica è un hobby ma non ho mai pensato di fare quello per mestiere.