«Nessun legame con la mafia». Colpo di scena: assolto l'appuntato Laforgia
Non hanno retto le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione mosse al militare. È tornato in libertà
giovedì 14 luglio 2022
4.42
Assolto al termine del processo di primo grado, celebrato con il rito ordinario, e rimesso in libertà. Coup de théâtre in aula, a Bari, nel secondo filone della vicenda collegata all'inchiesta sui due militari dell'Arma infedeli, entrambi in servizio in passato presso la Stazione di Giovinazzo, che sarebbero stati a libro paga del clan Di Cosola.
Per due anni l'appuntato scelto Domenico Laforgia è stato costretto a svestirsi della propria uniforme. Ieri, però, dopo due ore di camera di consiglio, il Tribunale di Bari ha sposato la tesi della difesa, rappresentata dal legale Tiziano Tedeschi, e dopo aver riqualificato i capi di imputazione, l'ha assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa «per non aver commesso il fatto» e da quello di corruzione in atti giudiziari e di rivelazione del segreto d'ufficio «perché il fatto non sussiste».
Non sono ancora note le motivazioni della sentenza - lo saranno entro 90 giorni -, ma per il collegio giudicante della prima sezione penale barese, presieduto da Rosa Calia Di Pinto, l'imputato, a cui è stato ordinato «il dissequestro e la restituzione delle somme di denaro e di quanto altro in sequestro», è stato condannato per il solo reato di omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale a 2 anni di reclusione (pena, peraltro, già scontata, nda), oltre al pagamento delle spese processuali.
Secondo l'indagine, i militari Antonio Salerno (condannato in abbreviato a 10 anni, nda) e lo stesso Laforgia, per anni avrebbero fornito informazioni su operazioni di polizia giudiziaria relative ad indagini in corso, sui turni di servizio e sui controlli da svolgere nei confronti degli affiliati posti ai domiciliari. In cambio avrebbero «ricevuto denaro e altre utilità per omettere o ritardare atti del proprio ufficio e per compiere atti contrari ai doveri d'ufficio, al fine di agevolare membri dei Di Cosola».
Per questo, nel processo, l'accusa, rappresentata in aula dai pubblici ministeri antimafia, Federico Perrone Capano e Domenico Minardi, aveva invocato 15 anni di reclusione nei riguardi del militare di Molfetta il cui difensore, nella sua lunga arringa, ha cercato di smontare le accuse di un'inchiesta avviata da Michele Giangaspero, uomo del clan poi divenuto collaboratore, che con le sue dichiarazioni ha fatto arrestare i due militari, raccontando i rapporti che avrebbero avuto con i Di Cosola.
Ma, almeno per Laforgia (da ieri tornato in libertà dopo più di due anni trascorsi fra il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la detenzione domiciliare, nda), il verdetto è stato di assoluzione. «Una sentenza giusta - l'ha definita il suo legale di fiducia, Tedeschi -, ma vorrei attendere le motivazioni prima di esprimermi più approfonditamente».
Per due anni l'appuntato scelto Domenico Laforgia è stato costretto a svestirsi della propria uniforme. Ieri, però, dopo due ore di camera di consiglio, il Tribunale di Bari ha sposato la tesi della difesa, rappresentata dal legale Tiziano Tedeschi, e dopo aver riqualificato i capi di imputazione, l'ha assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa «per non aver commesso il fatto» e da quello di corruzione in atti giudiziari e di rivelazione del segreto d'ufficio «perché il fatto non sussiste».
Non sono ancora note le motivazioni della sentenza - lo saranno entro 90 giorni -, ma per il collegio giudicante della prima sezione penale barese, presieduto da Rosa Calia Di Pinto, l'imputato, a cui è stato ordinato «il dissequestro e la restituzione delle somme di denaro e di quanto altro in sequestro», è stato condannato per il solo reato di omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale a 2 anni di reclusione (pena, peraltro, già scontata, nda), oltre al pagamento delle spese processuali.
Secondo l'indagine, i militari Antonio Salerno (condannato in abbreviato a 10 anni, nda) e lo stesso Laforgia, per anni avrebbero fornito informazioni su operazioni di polizia giudiziaria relative ad indagini in corso, sui turni di servizio e sui controlli da svolgere nei confronti degli affiliati posti ai domiciliari. In cambio avrebbero «ricevuto denaro e altre utilità per omettere o ritardare atti del proprio ufficio e per compiere atti contrari ai doveri d'ufficio, al fine di agevolare membri dei Di Cosola».
Per questo, nel processo, l'accusa, rappresentata in aula dai pubblici ministeri antimafia, Federico Perrone Capano e Domenico Minardi, aveva invocato 15 anni di reclusione nei riguardi del militare di Molfetta il cui difensore, nella sua lunga arringa, ha cercato di smontare le accuse di un'inchiesta avviata da Michele Giangaspero, uomo del clan poi divenuto collaboratore, che con le sue dichiarazioni ha fatto arrestare i due militari, raccontando i rapporti che avrebbero avuto con i Di Cosola.
Ma, almeno per Laforgia (da ieri tornato in libertà dopo più di due anni trascorsi fra il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la detenzione domiciliare, nda), il verdetto è stato di assoluzione. «Una sentenza giusta - l'ha definita il suo legale di fiducia, Tedeschi -, ma vorrei attendere le motivazioni prima di esprimermi più approfonditamente».