Legambiente:«Cronaca di un disastro annunciato»

Legambiente boccia il progetto dei "canaloni" e pretende l'accertamento dei responsabili

martedì 19 luglio 2016 12.37
«Cronaca di un disastro annunciato. Annunciato dagli ambientalisti catastrofisti, dagli ambientalisti del no, dai nemici dell'economia e dello sviluppo. Ma come mai in questo week-end, nella zona industriale di Molfetta, è successo quello che non doveva succedere? La colpa è della pioggia, certo. Ma le 'colpe' vengono da molto più lontano. E nessuno dica che non sapevamo, che non potevamo prevedere».

E' questa tutta la rabbia del circolo molfettese di Legambiente. Una presa di posizione decisa, netta che condanna tutto ciò che si sarebbe potuto fare ma che non si è fatto. Una posizione, come è ovvio, a favore della natura, delle lame, di quella Lama Marcinase che ha ceduto, provocando danni e distruzione e che «già nel Regio Decreto del 15 maggio 1902, lama Marcinase figurava tra le "principali acque pubbliche della Provincia di Bari". Che significa? Che se ne riconosceva l'importanza già allora, come bene pubblico e come risorsa idrogeologica da tutelare e da curare, alla stregua di un fiume. Poi, molto più tardi, sono venuti i sofisticati strumenti urbanistici che conosciamo (il PUTT/p, il PAI, il PPTR): lama Marcinase, come molte altre lame, non è mai stata cancellata sulla carta, anzi. Eppure, come molte altre lame, è stata deturpata, sbarrata, cancellata, violata nei fatti. Perché, in fondo, protegge da eventi atmosferici riportati solo sui libri, che non capitano mai e che nessuno, a sua memoria, ricordi. Nelle zone Asi, poi, gli strumenti urbanistici ordinari non si applicano, perché soccombono dinanzi ai Piani di Sviluppo Industriale. Così, sospese le regole 'normali', norme 'nuove' sono state via via scritte dai tecnici, ratificate dai politici e, spesso, avallate anche dal 'buon senso' della maggioranza della popolazione. Tutto questo ha reso possibile che la Zona Industriale di Molfetta fosse costruita così com'è ora. Perché lo sviluppo non si può fermare. Sì, ma neanche l'acqua», afferma Legambiente.

«È utile individuare responsabilità e 'colpe'. L'individuazione delle responsabilità servirebbe – e scusate se è poco – anche a evitare che ora, a pagarne le spese (non solo morali), siano tutti: qualche imprenditore in buona fede e, soprattutto, la collettività. E non, come dovrebbe essere, chi, fra soggetti pubblici e privati, sapeva e ha finto di non sapere. Oppure non sapeva anche se, come tecnico o come politico, aveva l'obbligo di sapere. Sarebbe giusto, insomma, imputare il costo dei risarcimenti a chi, colposamente o dolosamente, ha ignorato il rischio idraulico di quei siti», insiste Legamebiente prima di entrare nel dettaglio dell'ormai famoso progetto dei "canaloni", che, nella sua versione iniziale risale ai tempi dell'amministrazione di Antonio Azzollini.

«Secondo l'ultimo progetto poi rielaborato e condiviso dall'ultima amministrazione comunale di Paola Natalicchio, due collettori enormi che costeranno alla collettività milioni di euro e che attraverseranno ettari ed ettari dell'agro molfettese, distruggendo campagna e, ancora una volta, le lame già martoriate da decenni di urbanizzazione scriteriata. Collettori che, inoltre, se non manutenuti (a spese e a carico di chi?), potrebbero diventare comode discariche a cielo aperto facendo così ugualmente tracimare l'acqua che si dovesse raccogliere in abbondanza. Nel dettaglio, il 'canalone' unico (il canale di gronda progettato a protezione della Zona ASI e della zona PIP3 e sostenuto dall'ex sindaco Azzollini) misura, da progetto, larghezza pari a venticinque metri e profondità pari a tre: eliminati 5.000 alberi produttivi, la realizzazione del canalone, lungo quasi 10 km, comporterebbe lo scavo di 359.000 m³ di terra e roccia e l'occupazione di 164.000 m 2 di suolo agricolo (fino a danneggiare i suoli dell'oasi di Torre Calderina). Il tutto per una cifra stimata al ribasso pari a circa 25 milioni di euro. L'altro progetto (quello voluto dall'ex sindaco Natalicchio) prevede due canaloni, per niente meno impattanti. Ma il paradosso più grande è che il progetto dei canaloni, almeno nelle sue mire iniziali, servirebbe a mitigare anche i rischi idraulici che insisteranno su un'area al momento non ancora industrializzata (PIP3). Insomma, dopo aver cancellato gli alvei naturali che per millenni hanno protetto il territorio da alluvioni e inondazioni, le istituzioni preposte ne costruiscono di artificiali per porre rimedio ai propri errori (questo, per la Zona ASI). E, per la zona PIP3, anziché riprogettare quest'area e ricollocarla in una zona più sicura (ammesso che qualche studio economico abbia dimostrato che ce ne sia davvero il bisogno), le autorità di governo regionali e locali decidono di moderarne anzi-tempo i potenziali effetti nefasti con un'opera di enorme impatto ambientale».

«Che fare, dunque, ora? Serve, a questo punto, che si accertino le responsabilità di chi ha permesso che fossero realizzati quegli insediamenti e che, oltre a potenziare il sistema di protezione civile comunale con adeguati sistemi di preallerta (in questi giorni, la qualità degli interventi si è rivelata in molti casi inadeguata), si individuino interventi di mitigazione alternativi ai 'canaloni' (a quello mastodontico voluto da Azzolini, ai due non meno impattanti voluti da Natalicchio), interventi che siano meno costosi e meno impattanti sull'ambiente. E, questo, per evitare che, sull'onda dell'emergenza, si facciano danni più gravi di quelli già fatti. E perché non si dica, ancora, che non sapevamo».