Il rapporto padre-figlio e l'intreccio di vite nello spettacolo del duo Gambino-Ayroldi
Grande partecipazione alla prova aperta che si è tenuta presso la Cittadella degli Artisti
giovedì 21 settembre 2023
13.07
Nicolò Ayroldi e Samuele Gambino hanno concluso la loro residenza artistica presso La Cittadella degli Artisti con la prova aperta che nella serata di martedì ha dato vita alla prima messa in scena del loro nuovo spettacolo "Io Mi Ricordo Quando", una rielaborazione esistenziale del loro personale rapporto con la figura paterna.
L'opera realizzata dall'attore molfettese e dal suo collega di Catania ha presentato diversi spunti di riflessione, in primis per quanto riguarda le tante scelte surrealistiche che hanno conferito realmente un tono artistico e fuori dagli schemi rispetto a un tema, quello del legame padre-figlio, che spesso ha meno spazio di quanto meriterebbe pur essendo parte integrante dell'esistenza di ogni singolo essere umano. Certo, perché chiunque sia presente su questa terra ha in qualche modo un rapporto da raccontare con la figura del proprio padre, a prescindere dal fatto di aver condiviso o meno con lui determinate esperienze e sensazioni.
Anche chi, sfortunatamente, non ha mai conosciuto il proprio papà potrebbe dedicare fiumi di parole a un rapporto in absentia, caratterizzato proprio dall'assenza di una figura che resta centrale nella vita di chiunque. In quel caso si fa ricorso all'idealizzazione, non potendo toccare con mano il passato. Nel caso dei due attori, che non hanno fatto altro che interpretare loro stessi, il filo rosso che li ha legati ai rispettivi padri è stato tanto labile quanto doloroso, perché vissuto per parentesi brevi e spesso più dolorose che effettivamente edificanti.
Nicolò e Samuele hanno due personalità distinte che però sbattono contro lo stesso muro, quello di un padre che per il primo è presente solo per brevi scampoli tra le diverse trasferte di lavoro come chef al Nord Italia e per il secondo, invece, è assente da casa per divergenze familiari e, proprio dall'Italia per una lunga serie di viaggi in giro per il mondo, spesso in nazioni che facevano temere per la sua incolumità.
Le vite dei due attori hanno dei punti di raccordo che li portano a intrecciare i rispettivi monologhi che si trasformano in un affannoso dialogo che in realtà è una conversazione a quattro, per giunta con idiomi differenti: Nicolò parla con suo padre in puro dialetto molfettese, Samuele nel dialetto di quella Catania che gli ha dato i natali. L'effetto è volutamente disturbante, con un caos verbale che crea volutamente nello spettatore quella confusione d'animo provata da loro stessi nella costante e vana rincorsa di un rapporto normale con il proprio papà.
L'intero spettacolo è un J'accuse verso il proprio padre, simbolicamente rappresentato da una maschera posta al centro del palco dall'inizio alla fine con la morbosità di un rapporto, tanto intenso quanto doloroso, che trova il suo culmine con il momento in cui, entrambi, indossano quella maschera. Con un animo sofferente, che ricorda quello straziante di Kafka nella sua "Lettera al padre", i due snocciolano tutte le loro sofferente fino al momento più toccante, in cui un grande occhio (il loro), proiettato sulla loro figura, si riempie di lacrime come una grande tinozza che ha accolto acqua a stillicidio per anni, prima di poter finalmente liberarsi di quel peso grazie al teatro.
La loro esecuzione è stata davvero da applausi, grazie alla potenza dell'emozione autobiografica e con il supporto musicale del Maestro Paolo Vista che ha dato il proprio contributo tangibile nel rendere volutamente di rottura l'intero spettacolo. Importanti anche la scenografia curata da Riccardo Mastrapasqua e il light design condotto da Beppe Massara e Claudio de Robertis. Il linguaggio attoriale è stato frammentato, incalzante, a tratti futuristico per entrare con veemenza nell'animo dello spettatore che, a fine spettacolo, sente di aver vissuto sulla propria pelle un surrogato minimo, ma quantomai tangibile, del loro passato e di quel fantasma paterno così poco presente eppure così ingombrante nella loro psiche.
Le foto sono a cura di Vincenzo De Pinto.
L'opera realizzata dall'attore molfettese e dal suo collega di Catania ha presentato diversi spunti di riflessione, in primis per quanto riguarda le tante scelte surrealistiche che hanno conferito realmente un tono artistico e fuori dagli schemi rispetto a un tema, quello del legame padre-figlio, che spesso ha meno spazio di quanto meriterebbe pur essendo parte integrante dell'esistenza di ogni singolo essere umano. Certo, perché chiunque sia presente su questa terra ha in qualche modo un rapporto da raccontare con la figura del proprio padre, a prescindere dal fatto di aver condiviso o meno con lui determinate esperienze e sensazioni.
Anche chi, sfortunatamente, non ha mai conosciuto il proprio papà potrebbe dedicare fiumi di parole a un rapporto in absentia, caratterizzato proprio dall'assenza di una figura che resta centrale nella vita di chiunque. In quel caso si fa ricorso all'idealizzazione, non potendo toccare con mano il passato. Nel caso dei due attori, che non hanno fatto altro che interpretare loro stessi, il filo rosso che li ha legati ai rispettivi padri è stato tanto labile quanto doloroso, perché vissuto per parentesi brevi e spesso più dolorose che effettivamente edificanti.
Nicolò e Samuele hanno due personalità distinte che però sbattono contro lo stesso muro, quello di un padre che per il primo è presente solo per brevi scampoli tra le diverse trasferte di lavoro come chef al Nord Italia e per il secondo, invece, è assente da casa per divergenze familiari e, proprio dall'Italia per una lunga serie di viaggi in giro per il mondo, spesso in nazioni che facevano temere per la sua incolumità.
Le vite dei due attori hanno dei punti di raccordo che li portano a intrecciare i rispettivi monologhi che si trasformano in un affannoso dialogo che in realtà è una conversazione a quattro, per giunta con idiomi differenti: Nicolò parla con suo padre in puro dialetto molfettese, Samuele nel dialetto di quella Catania che gli ha dato i natali. L'effetto è volutamente disturbante, con un caos verbale che crea volutamente nello spettatore quella confusione d'animo provata da loro stessi nella costante e vana rincorsa di un rapporto normale con il proprio papà.
L'intero spettacolo è un J'accuse verso il proprio padre, simbolicamente rappresentato da una maschera posta al centro del palco dall'inizio alla fine con la morbosità di un rapporto, tanto intenso quanto doloroso, che trova il suo culmine con il momento in cui, entrambi, indossano quella maschera. Con un animo sofferente, che ricorda quello straziante di Kafka nella sua "Lettera al padre", i due snocciolano tutte le loro sofferente fino al momento più toccante, in cui un grande occhio (il loro), proiettato sulla loro figura, si riempie di lacrime come una grande tinozza che ha accolto acqua a stillicidio per anni, prima di poter finalmente liberarsi di quel peso grazie al teatro.
La loro esecuzione è stata davvero da applausi, grazie alla potenza dell'emozione autobiografica e con il supporto musicale del Maestro Paolo Vista che ha dato il proprio contributo tangibile nel rendere volutamente di rottura l'intero spettacolo. Importanti anche la scenografia curata da Riccardo Mastrapasqua e il light design condotto da Beppe Massara e Claudio de Robertis. Il linguaggio attoriale è stato frammentato, incalzante, a tratti futuristico per entrare con veemenza nell'animo dello spettatore che, a fine spettacolo, sente di aver vissuto sulla propria pelle un surrogato minimo, ma quantomai tangibile, del loro passato e di quel fantasma paterno così poco presente eppure così ingombrante nella loro psiche.
Le foto sono a cura di Vincenzo De Pinto.