Giovane marocchina subisce violenze dalla sua famiglia perché non rispetta le “regole” dell’Islam
Al lavoro gli uomini della Questura e di un centro antiviolenza di Bari
venerdì 14 aprile 2017
0.49
Picchiata, maltrattata e costretta a subire le più terribili punizioni soltanto perché nell'Islam proprio non riusciva a credere. E' la storia di Fatima (utilizziamo un nome di fantasia ai fini di garantirne la totale riservatezza), giovane 17enne marocchina, nata in un villaggio vicino Marrakech e giunta insieme alla sua famiglia in Italia quando aveva appena quattro anni.
In un paese come il nostro dove la religione cattolica è un dogma e tutte le tradizioni legate ad essa appiano così scontate, in una società come la nostra dove la libertà di espressione, di apparire e comparire sono più o meno garantite, risulta un po' complesso comprendere certe vicende simili a quelle di Fatima.
Il suo viaggio dal Marocco all'Italia, insieme ai suoi tre fratelli e ai suoi genitori, non è stato così traumatico come possiamo immaginare. A Molfetta è giunta quasi subito, poiché suo padre, prima di trasferire l'intera famiglia, ha vissuto nella nostra città per alcuni anni, vivendo di commercio ambulante. Fatima a Molfetta ci ha passato praticamente metà della sua vita, tanto che del Marocco non ricorda assolutamente nulla.
«Molfetta è la mia città, la sento mia perché è lì che ho tutte le mie amicizie», ha confessato a chi la sta supportando psicologicamente in uno dei centri antiviolenza di Bari in cui al momento si trova.
«A Molfetta è realmente cominciata la mia vita e il Marocco, nonostante i miei genitori me ne abbiano sempre parlato, è e rimane una terra straniera. Mi duole dirlo, ma non posso sentirmi marocchina».
Parole spontanee quelle di Fatima che ci conducono velocemente alla parte più cruda e triste di questa storia.
«Per me il culto religioso, la fede nell'Islam è qualcosa di astratto», ha proseguito la giovane marocchina. «Conosco il Corano soltanto perché imposto dalla mia famiglia, ma non lo comprendo e tutto quello che gira intorno ad esso non lo condivido».
«I miei studi purtroppo si fermano alla terza media – ha commentato – perché mio padre mi ha impedito di iscrivermi al liceo linguistico. Divenire interprete era il mio sogno, lo è tuttora, sebbene oggi veda tutto compromesso».
A Fatima è stato obbligato di portare il velo, a cui si è opposta sin da subito, ottenendo percosse, insulti e vessazioni di ogni tipo da parte dei suoi genitori e dei suoi fratelli.
«Mi sento diversa, non sono come loro e non voglio esserlo – ha raccontato – perché la mia vita non può essere già scritta».
La giovane ragazza ha trovato il coraggio di denunciare agli uomini della Questura di Bari, che hanno immediatamente affidato la famiglia ad un centro antiviolenza del capoluogo barese, denunciando a sua volta la famiglia. Parole di affetto Fatima le rivolge a Molfetta.
«In quella città voglio tornarci, perché è da lì che ho intenzione di ripartire, proprio da dove tutto è iniziato, perché a Molfetta ho respirato per la prima volta quel sapore di libertà».
In un paese come il nostro dove la religione cattolica è un dogma e tutte le tradizioni legate ad essa appiano così scontate, in una società come la nostra dove la libertà di espressione, di apparire e comparire sono più o meno garantite, risulta un po' complesso comprendere certe vicende simili a quelle di Fatima.
Il suo viaggio dal Marocco all'Italia, insieme ai suoi tre fratelli e ai suoi genitori, non è stato così traumatico come possiamo immaginare. A Molfetta è giunta quasi subito, poiché suo padre, prima di trasferire l'intera famiglia, ha vissuto nella nostra città per alcuni anni, vivendo di commercio ambulante. Fatima a Molfetta ci ha passato praticamente metà della sua vita, tanto che del Marocco non ricorda assolutamente nulla.
«Molfetta è la mia città, la sento mia perché è lì che ho tutte le mie amicizie», ha confessato a chi la sta supportando psicologicamente in uno dei centri antiviolenza di Bari in cui al momento si trova.
«A Molfetta è realmente cominciata la mia vita e il Marocco, nonostante i miei genitori me ne abbiano sempre parlato, è e rimane una terra straniera. Mi duole dirlo, ma non posso sentirmi marocchina».
Parole spontanee quelle di Fatima che ci conducono velocemente alla parte più cruda e triste di questa storia.
«Per me il culto religioso, la fede nell'Islam è qualcosa di astratto», ha proseguito la giovane marocchina. «Conosco il Corano soltanto perché imposto dalla mia famiglia, ma non lo comprendo e tutto quello che gira intorno ad esso non lo condivido».
«I miei studi purtroppo si fermano alla terza media – ha commentato – perché mio padre mi ha impedito di iscrivermi al liceo linguistico. Divenire interprete era il mio sogno, lo è tuttora, sebbene oggi veda tutto compromesso».
A Fatima è stato obbligato di portare il velo, a cui si è opposta sin da subito, ottenendo percosse, insulti e vessazioni di ogni tipo da parte dei suoi genitori e dei suoi fratelli.
«Mi sento diversa, non sono come loro e non voglio esserlo – ha raccontato – perché la mia vita non può essere già scritta».
La giovane ragazza ha trovato il coraggio di denunciare agli uomini della Questura di Bari, che hanno immediatamente affidato la famiglia ad un centro antiviolenza del capoluogo barese, denunciando a sua volta la famiglia. Parole di affetto Fatima le rivolge a Molfetta.
«In quella città voglio tornarci, perché è da lì che ho intenzione di ripartire, proprio da dove tutto è iniziato, perché a Molfetta ho respirato per la prima volta quel sapore di libertà».