Giornata mondiale dell'infermiere: intervista a Elisabetta de Trizio

Ha raccontato la sua esperienza all'ospedale di Molfetta

domenica 12 maggio 2024 13.28
A cura di Vincenzo Ciccolella
La sera del 9 Marzo 2020 l'allora premier Giuseppe Conte annunciava l'attuazione di misure sanitarie drastiche, volte ad arginare il crescente numero di contagiati da SARS-CoV-12: si scandiva l'incipit della forse più grande sfida nella storia della Repubblica. Ricorre, il 12 Maggio, la giornata mondiale dell'infermiere, uno tra i vari fari nella nebbia durante la sfida pandemica: dunque cosa significa esserlo?

Di seguito, quindi, alcune dichiarazioni di Elisabetta de Trizio, infermiera nel reparto urologia di Molfetta.

«Sono molto fortunata a svolgere questo lavoro. Nella mia vita mi sono scontrata con la morte precoce di mio padre, ammalatosi gravemente, e ritengo che da lì abbia preso avvio la mia ricerca volta ad avere risposte su quel mondo col quale ero entrata in contatto. Essere infermiere non è facile, ci si rapporta con una persona in difficoltà per i motivi più disparati. Ed è per questo motivo che è importante immedesimarsi negli altri. Nel periodo COVID ho, ad esempio, praticato parecchie unzioni degli infermi, essendo convinta francescana e aiutando cristianamente chi lo volesse» dichiara Elisabetta.

Di particolare rilevo è la testimonianza che di suo pugno ha scritto: "Mi sento dentro", un racconto nel quale ha reinterpretato la sua professione in chiave emotiva.
Nello specifico le sue parole nascono e crescono all'ombra del più profondo spartiacque della storia contemporanea: la pandemia. «Al tempo l'ospedale di Molfetta non ospitava casi di positività ma, essendo comunque presenti pazienti fragili, le visite furono sospese scatenando un vuoto profondo ed un senso di solitudine insanabile in chi era ospedalizzato». Elisabetta racconta di essere stata spostata dal reparto di medicina, che emotivamente risulta essersi rivelato il più devastante:«I pazienti di quel reparto sono allettati, gravi o anziani ma soprattutto delusi, delusi dalle mancate visite, delusi dall'amarezza dell'essere soli»- commenta - «Ho usato il telefono per tantissime videochiamate alle quali ero costretta ad assistere ed in cui piangere era l'unica cosa che gli ammalati riuscivano a fare. Ricordo una signora di 84 anni che, a causa di un tumore con metastasi cerebrali, era poco lucida e piangeva perché voleva che la madre andasse da lei. Decisi dunque di trattarla come mia madre, ammalata di Alzheimer, e le assicurai che sarebbe arrivata al più presto: questo la rasserenò più e più volte».

Ma, or dunque, ci si può chiedere quale possa essere il contraccolpo emotivo degli infiniti casi di sofferenza cui si assiste nel mondo della sanità.
«Tornando a casa dovevo fare i conti con le mie fragilità: piangevo e non riuscivo ad essere la donna di sempre. Non mi sono ammalata di Covid 19 ma quel virus mi è entrato dentro lo stesso» - dichiara Elisabetta, consapevole di quanto sia necessario, per gli infermieri, essere elastici e tentare di non assorbire la sofferenza altrui, empatizzando allo stesso tempo «i segni delle mascherine sono nell'anima. Al tempo mi sentivo moralmente a terra, ma mi sono sempre ripromessa di tirar fuori la grinta e continuare ad assistere gli ammalati. Inizio a rialzarmi, ma, è dura».