Francesco padre: una tragedia che Molfetta non potrà mai dimenticare
La verità delle carte processuali hanno ridato dignità a quegli uomini e all’intera marineria di Molfetta
lunedì 4 novembre 2019
Francesco padre. Era il 4 novembre 1994 quando quella che doveva essere una normale giornata di lavoro, per le famiglie di Giovanni Pansini, Saverio Gadaleta, Luigi De Giglio, Francesco Zaza, Mario De Nicolo e il fedele cane Leone, si è trasformata in tragedia.
Una tragedia che ancora non ha giustizia, non ha degli imputati. La verità nel corso di questi 25 anni è venuta fuori attraverso le lotte costanti dei familiari, dei magistrati che si sono succeduti, dei periti, nonostante i segreti di Stato, gli omissis, le verità negate.
In quelle acque, nelle acque del nostro Adriatico, in quel 1994 era in corso l'operazione militare "Sharp Guard".
Mentre in città incominciavano a impazzare le voci più assurde ed infanganti per questi uomini e per la marineria molfettese, una voce si alza fuori dal coro, quella di Maria Pansini, figlia del comandante Giovanni: "Mio padre non ha mai trasportato esplosivo sul suo peschereccio".
Infatti, dal 2014, a conferma delle sue parole, oltre alla perizia depositata da quattro tecnici di parte civile secondo la quale, nel 1994, a causare l'esplosione e il conseguente inabissamento del motopeschereccio Francesco padre sarebbe stato un proiettile del tipo 'pit' (perforante-incendiario-tracciante) con incamiciatura in rame metallico "full metal racket", sparato da una distanza non inferiore a 500 metri e ascrivibile a un calibro compreso tra 12,7 millimetri e 14,5 millimetri, come quelli in dotazione agli apparati militari.
Si aggiungono anche le conclusioni dell'inchiesta a cui è giunta la Procura di Trani, quando, a conclusione della quarta inchiesta, la Procura di Trani, demolendo tutte le altre ipotesi investigative, ritenute infondate, giunge alla conclusione che il motopeschereccio Francesco padre "per un tragico errore" "sia stato affondato dalle forze Nato perché scambiato per uno di quei natanti utilizzati in funzione antisommergibile" nell'area dell'affondamento dove era in corso, lo ricordiamo, l'embargo alla ex Jugoslavia.
Inoltre, a raccontare la verità sulle cause dell'affondamento del peschereccio sono le risultanze degli studi effettuati su un pezzo di legno, un reperto, chiamato falchetta. I periti di parte hanno riscontrato sul reperto tracce chimiche del rame che rivestiva il proiettile integrando le risultanze del Ris che attribuivano la presenza del metallo all'uso di vernici acriliche. Ma "tali vernici – scrivevano i periti – non contengono rame".
Il Francesco padre esplode alle 00.30 del 4 novembre 1994 al largo delle coste del Montenegro. A dare l'allarme è il pilota di un aereo Nato impegnato nelle operazioni di embargo alla ex Jugoslavia. Poco più di un'ora dopo, una unità della marina spagnola raggiunge il luogo dell'esplosione. Ma non ci sono superstiti. In mare ci sono solo rottami e due pezzi di legno: su uno si legge "Francesco Padre", sull'altro "Molfetta 990". La procura della Repubblica apre una inchiesta.
Le autorità Nato escludono che l'esplosione del peschereccio possa essere collegata alle operazioni in corso nel basso Adriatico. I periti della Procura giungono alla conclusione che a bordo del "Francesco padre" ci fosse esplosivo. Il 13 maggio del 1997 l'inchiesta viene archiviata.
Nel 2001 viene presentata istanza per richiedere la riapertura dell'inchiesta e il recupero del relitto. La Procura rigetta. Nel 2010 arriva la svolta, l'inchiesta riparte. Poi viene chiusa e di nuovo riaperta per finire con l'ennesima archiviazione perché la mancanza assoluta di collaborazione delle forze Nato, che non hanno mai risposto alle rogatorie internazionali, non ha consentito, nei fatti, alla Procura di procedere con eventuali richieste di rinvio a giudizio. E oggi sono venticinque anni dalla tragedia.
Ma la verità delle carte processuali hanno ridato dignità a quegli uomini e all'intera marineria di Molfetta.
Una tragedia che ancora non ha giustizia, non ha degli imputati. La verità nel corso di questi 25 anni è venuta fuori attraverso le lotte costanti dei familiari, dei magistrati che si sono succeduti, dei periti, nonostante i segreti di Stato, gli omissis, le verità negate.
In quelle acque, nelle acque del nostro Adriatico, in quel 1994 era in corso l'operazione militare "Sharp Guard".
Mentre in città incominciavano a impazzare le voci più assurde ed infanganti per questi uomini e per la marineria molfettese, una voce si alza fuori dal coro, quella di Maria Pansini, figlia del comandante Giovanni: "Mio padre non ha mai trasportato esplosivo sul suo peschereccio".
Infatti, dal 2014, a conferma delle sue parole, oltre alla perizia depositata da quattro tecnici di parte civile secondo la quale, nel 1994, a causare l'esplosione e il conseguente inabissamento del motopeschereccio Francesco padre sarebbe stato un proiettile del tipo 'pit' (perforante-incendiario-tracciante) con incamiciatura in rame metallico "full metal racket", sparato da una distanza non inferiore a 500 metri e ascrivibile a un calibro compreso tra 12,7 millimetri e 14,5 millimetri, come quelli in dotazione agli apparati militari.
Si aggiungono anche le conclusioni dell'inchiesta a cui è giunta la Procura di Trani, quando, a conclusione della quarta inchiesta, la Procura di Trani, demolendo tutte le altre ipotesi investigative, ritenute infondate, giunge alla conclusione che il motopeschereccio Francesco padre "per un tragico errore" "sia stato affondato dalle forze Nato perché scambiato per uno di quei natanti utilizzati in funzione antisommergibile" nell'area dell'affondamento dove era in corso, lo ricordiamo, l'embargo alla ex Jugoslavia.
Inoltre, a raccontare la verità sulle cause dell'affondamento del peschereccio sono le risultanze degli studi effettuati su un pezzo di legno, un reperto, chiamato falchetta. I periti di parte hanno riscontrato sul reperto tracce chimiche del rame che rivestiva il proiettile integrando le risultanze del Ris che attribuivano la presenza del metallo all'uso di vernici acriliche. Ma "tali vernici – scrivevano i periti – non contengono rame".
Il Francesco padre esplode alle 00.30 del 4 novembre 1994 al largo delle coste del Montenegro. A dare l'allarme è il pilota di un aereo Nato impegnato nelle operazioni di embargo alla ex Jugoslavia. Poco più di un'ora dopo, una unità della marina spagnola raggiunge il luogo dell'esplosione. Ma non ci sono superstiti. In mare ci sono solo rottami e due pezzi di legno: su uno si legge "Francesco Padre", sull'altro "Molfetta 990". La procura della Repubblica apre una inchiesta.
Le autorità Nato escludono che l'esplosione del peschereccio possa essere collegata alle operazioni in corso nel basso Adriatico. I periti della Procura giungono alla conclusione che a bordo del "Francesco padre" ci fosse esplosivo. Il 13 maggio del 1997 l'inchiesta viene archiviata.
Nel 2001 viene presentata istanza per richiedere la riapertura dell'inchiesta e il recupero del relitto. La Procura rigetta. Nel 2010 arriva la svolta, l'inchiesta riparte. Poi viene chiusa e di nuovo riaperta per finire con l'ennesima archiviazione perché la mancanza assoluta di collaborazione delle forze Nato, che non hanno mai risposto alle rogatorie internazionali, non ha consentito, nei fatti, alla Procura di procedere con eventuali richieste di rinvio a giudizio. E oggi sono venticinque anni dalla tragedia.
Ma la verità delle carte processuali hanno ridato dignità a quegli uomini e all'intera marineria di Molfetta.