Da Molfetta a Overton: Sara Papagni tra "schedule, cheerleading e prom"
«Il fatto di aver affrontato tutto da sola mi ha fatto capire quanto sono forte come persona»
lunedì 27 maggio 2024
Dire stop alla monotonia e vivere il "sogno americano": per Sara Papagni, originaria di Bisceglie, l'anno scolastico appena trascorso è stato speciale. Dopo aver frequentato per tre anni il liceo classico "Leonardo da Vinci" di Molfetta, il quarto anno è stata accolta nella Moap Valley High School, a Overton, in Nevada. La stessa scuola dove pochi giorni fa è stata protagonista della graduation day, una cerimonia formale in cui le è stato consegnato un attestato di partecipazione per aver frequentato con profitto l'anno scolastico (visto che nello stato del Nevada gli studenti stranieri non hanno la possibilità di conseguire il diploma).
Sara è stata riconosciuta anche come studentessa eccellente dalla scuola americana, perchè ha praticato attività sportive e ha mantenuto tutte A come valutazioni.
Il ritorno a casa si fa sempre più vicino (è fissato per il 7 giugno) e la giovane, mentre si prepara a lasciare quello che l'ha circondata per un anno, ha condiviso con la redazione la sua esperienza fatta di alti e bassi, ma soprattutto di indescrivibili emozioni.
Com'è nata l'esigenza di intraprendere questo percorso che ti ha portata in Nevada?
«La mia esigenza di partire è nata quando mi sono resa conto che stavo vivendo in un loop. Le mie giornate erano tutte uguali, facevo le stesse attività ogni giorno. Mi sono accorta che mi stavo spegnendo e che la "Sara" che io so di essere stava scomparendo. Avevo bisogno di un anno di pausa per ritrovare me stessa e per riscoprire la voglia di viaggiare e di fare nuove esperienze».
L'idea di affrontare un anno scolastico all'estero ti spaventava all'inizio? Ora che l'anno è quasi concluso, se potessi tornare indietro, rifaresti tutto?
«Quando ho deciso di intraprendere questo percorso ero super felice di ricominciare. L'ultimo giorno in cui ho frequentato la scuola italiana, però, ho avuto un crollo, mi ripetevo che non sapevo cosa mi attendeva. Questo stava iniziando a spaventarmi e ha continuato a farlo fino al 18 luglio dello scorso anno, la data della mia partenza per gli Stati Uniti. Ero entrata in over-thinking, non sapevo se ce l'avrei fatta a stare 11 mesi da sola, senza la mia famiglia, i miei amici, la mia quotidianità. I primi quattro giorni li ho passati al New York Summer Camp, un percorso di preparazione all'esperienza che avrei vissuto. Ero molto tranquilla perché con me c'erano altri ragazzi italiani. Il panico è arrivato quando da New York ho preso il volo per Las Vegas, che si trova a 45 minuti dal paese dove ero diretta. In aereo mi sono sfogata con il passeggero che era seduto accanto a me, gli ho raccontato perché mi trovavo in America. L'idea di andare a Overton, un paesino di appena 5mila abitanti nel deserto, non era per niente rassicurante. Quando poi sono atterrata e ho conosciuto la famiglia che mi ospitava è andato tutto per il meglio. Se lo rifarei? Assolutamente sì».
Quali attività hanno caratterizzato il tuo anno americano?
«L'attività che più ha caratterizzato il mio anno all'estero è stata quella di cheerleader. Nella mia prima famiglia ospitante, mia sorella mi propose di fare cheerleading e io fui contentissima: avrei realizzato il sogno americano. Dopo aver inviato dei video quando ero ancora in Italia, sono stata accettata nella squadra e al mio arrivo ho subito iniziato la clinica di cheerleading, facevamo le prove dalle 8 di mattina alle 5 di pomeriggio. Poi una settimana dopo è iniziata la scuola e ho avuto allenamenti tutti i giorni dalle 14:30 alle 16:30. Ogni venerdì, durante le partite, animavamo gli half-time con le coreografie che avevamo preparato, facevamo le piramidi per intrattenere i presenti. Da luglio a novembre lo abbiamo fatto per la stagione di football, poi da novembre a febbraio per quella di basketball. È stato stupendo perché mi sono sentita subito inclusa nel team. Sarò sempre grata alle mie due coach per aver reso possibile tutto questo».
Cos'hai studiato a Overton?
«La scuola che frequento prevede che ogni giorno si frequenti sempre la stessa schedule, che corrisponde un po' al nostro orario scolastico. Stesse materie tutti i giorni, nello stesso ordine temporale. La mia schedule, all'inizio, prevedeva inglese, arte, geo-science, Ag food science, governo e matematica. I due studi più caratteristici sono stati arte e Ag. Al liceo classico, durante le ore di arte, si studiano i periodi storici, in America è completamente diverso. Fare arte significa creare. Io non avevo la minima idea di saper disegnare e pitturare, questa scuola americana mi ha fatto scoprire la mia creatività e le mie idee, che vanno oltre lo studio dei testi. La docente ci spiegava delle tecniche con cui avremmo fatto le opere e noi, in base alla creatività personale, sceglievamo come realizzare il progetto. Quando inviavo le foto delle mie opere a casa, i miei genitori o mia nonna quasi non credevano che le avessi fatte io. Per quanto riguarda AG food science è davvero una classe particolare: una volta a settimana andavamo nella fattoria del paesino e, divisi in gruppi di quattro, ci prendevamo cura di un giardino. Studiavamo come piantare, come fare crescere e far germogliare le piante, le tecniche per tagliarle, scoprivamo quali piante fossero indicate in quale periodo. Io, una ragazza di città, non mi sarei mai immaginata a coltivare un giardino! Invece è stato molto divertente. Abbiamo piantato le carote e abbiamo potuto portare a casa ciò che coltivavamo. "Imparare-facendo": questa è la filosofia scolastica in America. Non c'è una sola materia in cui ci si fermi alla teoria e si impari solo dai libri. Mi ricordo quando il giorno prima del test di governo abbiamo giocato con Kahoot e Game Kit per fare simulazioni».
Non solo scuola, ma anche rapporti umani. Quali legami hai costruito e porterai nel cuore?
«Ho iniziato il mio anno con una famiglia ospitante, nella quale mi sono sentita subito accolta. C'erano quattro sorelle, la mamma e il papà e con loro è andato tutto bene per i primi mesi. Poi ho iniziato a sentire una certa apprensione da parte della mamma. Io all'inizio, non conoscendo nessuno, stavo sempre a casa. Col tempo ho iniziato ovviamente a fare nuove amicizie, ho una relazione e questo fatto alla mamma provocava tensione. Avevo anche ansia a parlarle e a chiederle il permesso per uscire. Mi sentivo in trappola, proprio a livello mentale. È stata dura e sotto Natale ho iniziato ad avere problemi più seri, mi sono ammalata proprio nelle vacanze e ho capito che quello era il momento di rottura, mi sentivo abbandonata. Io e loro siamo molto diversi, ma questo fa parte dell'esperienza all'estero, in cui devi saperti adattare. A febbraio ho deciso di cambiare famiglia: dopo questo passo sono riuscita anche a riallacciare i rapporti con le mie sorelle, che resteranno sempre una parte fondamentale del mio anno all'estero. Sono state le mie prime migliori amiche prima di conoscere Sierra e Amarissa, le mie attuali migliori amiche americane con cui sto ogni giorno, a pranzo e la sera. Adesso sto vivendo con Amarissa e sua madre, che mi hanno accolto dopo un momento per me difficilissimo. In questa seconda famiglia ho trovato un tesoro: è come se ci conoscessimo da sempre. La mamma di Amarissa è diventata la mia migliore amica: mi porta a fare tantissime esperienze, con lei posso parlare di tutto, abbiamo le stesse vibes. Il nostro legame si è rafforzato ancora di più quando purtroppo è venuto a mancare mio nonno e loro due hanno saputo darmi un supporto incredibile. Per la graduation la mamma di Amarissa mi ha regalato un ciondolo con una foto di mio nonno da attaccare al cappello classico delle cerimonie americane. Per non parlare dei professori, che in America sono come degli amici: ho instaurato un bellissimo rapporto con tutti, mi hanno sempre spronato ad andare avanti e a fare del mio meglio. Ho conosciuto anche tantissime altre persone che porterò sempre nel cuore, ma le mie due migliori amiche e la mia seconda famiglia sono davvero speciali per me. Insieme al mio ragazzo, ovviamente, che ho conosciuto a una partita di football. Io cheerleader, lui football player, come nei film. È davvero un ragazzo dolcissimo, che mi ha aiutato a superare tanti brutti momenti. Spero che la nostra relazione continui anche in futuro».
La te che è arrivata in Nevada non è sicuramente la stessa te che si prepara a lasciarlo. Come hai vissuto le prime settimane e in cosa, oggi, ti senti diversa?
«La me che ha lasciato l'Italia è sicuramente diversa dalla me che sta per lasciare il Nevada. Qui ho ritrovato la mia voglia di vivere, le mie energie, la mia spensieratezza. Ma ho anche imparato a saper apprezzare le piccole cose, quelle di cui non ti accorgi quando sei intrappolato nella monotonia del quotidiano. Sicuramente ho anche imparato ad adattarmi, a essere più estroversa, perché qui in America devi essere tu a fare il primo passo per costruire delle relazioni. Poi ho imparato quanto sia importante la comunicazione efficace per mantenere i legami umani, soprattutto nel contesto familiare. La calma e la pazienza sono indispensabili per fare tutto: per integrarsi e sentirsi a proprio agio in un mondo completamente nuovo ci vogliono almeno due, tre mesi. Mi sento anche molto più fortunata: quando ho lasciato l'Italia sentivo quasi di non apprezzare più il luogo in cui vivevo, invece adoro la mia casa, la pulizia della mia stanza, il cibo che mamma mi prepara ogni giorno. Penso che l'insegnamento più grande, però, sia l'aver imparato a credere di più in me stessa. Se prima di partire mi avessero elencato le difficoltà in cui mi sarei trovata, non avrei mai lasciato l'Italia per un anno. Ma il fatto stesso di aver affrontato tutto da sola, potendo contare solo su me stessa, mi ha fatto scoprire quanto sono forte come persona. Le prima settimane sono state inevitabilmente dure. Ci sono state volte in cui chiamavo mia madre quando in Italia erano le quattro di notte. La ringrazio perché mi rispondeva anche a orari impensabili e mi ascoltava quando le raccontavo che non ce l'avrei fatta. Ma se ci ripenso adesso, sento di darmi una pacca sulla spalla».
I balli di fine anno americani e tutto ciò che vediamo nei film e nelle serie tv sono davvero come li immaginiamo? Com'è stato partecipare?
«La mia scuola, composta da 500/600 studenti (una scuola piccola per l'America), propone 4 balli all'anno. L'home-coming, il ballo di inizio anno, il cui dress code sono i vestiti corti. Qui sono i ragazzi a invitare le ragazze al ballo. La proposta avviene attraverso un poster accompagnato da cioccolatini, fiori. La ragazza, per rispondere, usa lo stesso metodo. Per il ballo d'inverno il dress-code era formale e in questo caso sono le ragazze a invitare i ragazzi. Poi abbiamo avuto il ballo di San Valentino, il cui tema erano vestiti rossi, bianchi o rosa. Anche in questa occasione sono le ragazze a proporre. Infine c'è il prom, il ballo di fine anno, il più atteso di tutti, in cui sono di nuovo i ragazzi a invitare le ragazze. La palestra che ospita i balli è tutta addobbata, ci sono il punch, il deejay, la musica, le luci. Se è come nei film? I primi tre non proprio, dopo un'ora diventano un po' monotoni. Non posso dire la stessa cosa per il prom, dove c'è il lento e c'è per tutta la serata l'attesa per l'elezione del king-prom e della queen-prom. Si eleggono anche il principe e la principessa del ballo».
Infine, che cosa porteresti della Puglia in Nevada e, viceversa, che cosa porteresti del Nevada a casa?
«Della Puglia porterei in America 3 cose: le tradizioni, il cibo e la pulizia. Anche loro hanno delle tradizioni, ma non sono come le nostre, fatte di anni e anni di storia. Sul cibo non ci sono paragoni: per noi anche l'enogastronomia è tradizione. Per l'ordine, invece, loro sono molto più "chill" rispetto a noi: non nel senso negativo, ma nel senso che c'è meno cura dei dettagli. Un esempio? I nostri pranzi di Natale sono caratterizzati dalla tovaglia rossa, le decorazioni e una serie di portate. Il pranzo di Natale americano è più semplice, niente tovaglia o addobbi, si prepara qualcosa da mangiare e si sta tutti insieme. Viceversa, del Nevada porterei in Italia la mentalità: se fossimo più aperti avremmo uno stile di vita completamente diverso. Porterei da noi anche il metodo di studio: sicuramente il sistema scolastico italiano prepara gli studenti ad affrontare i percorsi universitari che sono complessi, ma se alla teoria accompagnassimo l'experience come si fa in America avremmo un sistema in cui i giovani sono indiscussi protagonisti».
Sara è stata riconosciuta anche come studentessa eccellente dalla scuola americana, perchè ha praticato attività sportive e ha mantenuto tutte A come valutazioni.
Il ritorno a casa si fa sempre più vicino (è fissato per il 7 giugno) e la giovane, mentre si prepara a lasciare quello che l'ha circondata per un anno, ha condiviso con la redazione la sua esperienza fatta di alti e bassi, ma soprattutto di indescrivibili emozioni.
Com'è nata l'esigenza di intraprendere questo percorso che ti ha portata in Nevada?
«La mia esigenza di partire è nata quando mi sono resa conto che stavo vivendo in un loop. Le mie giornate erano tutte uguali, facevo le stesse attività ogni giorno. Mi sono accorta che mi stavo spegnendo e che la "Sara" che io so di essere stava scomparendo. Avevo bisogno di un anno di pausa per ritrovare me stessa e per riscoprire la voglia di viaggiare e di fare nuove esperienze».
L'idea di affrontare un anno scolastico all'estero ti spaventava all'inizio? Ora che l'anno è quasi concluso, se potessi tornare indietro, rifaresti tutto?
«Quando ho deciso di intraprendere questo percorso ero super felice di ricominciare. L'ultimo giorno in cui ho frequentato la scuola italiana, però, ho avuto un crollo, mi ripetevo che non sapevo cosa mi attendeva. Questo stava iniziando a spaventarmi e ha continuato a farlo fino al 18 luglio dello scorso anno, la data della mia partenza per gli Stati Uniti. Ero entrata in over-thinking, non sapevo se ce l'avrei fatta a stare 11 mesi da sola, senza la mia famiglia, i miei amici, la mia quotidianità. I primi quattro giorni li ho passati al New York Summer Camp, un percorso di preparazione all'esperienza che avrei vissuto. Ero molto tranquilla perché con me c'erano altri ragazzi italiani. Il panico è arrivato quando da New York ho preso il volo per Las Vegas, che si trova a 45 minuti dal paese dove ero diretta. In aereo mi sono sfogata con il passeggero che era seduto accanto a me, gli ho raccontato perché mi trovavo in America. L'idea di andare a Overton, un paesino di appena 5mila abitanti nel deserto, non era per niente rassicurante. Quando poi sono atterrata e ho conosciuto la famiglia che mi ospitava è andato tutto per il meglio. Se lo rifarei? Assolutamente sì».
Quali attività hanno caratterizzato il tuo anno americano?
«L'attività che più ha caratterizzato il mio anno all'estero è stata quella di cheerleader. Nella mia prima famiglia ospitante, mia sorella mi propose di fare cheerleading e io fui contentissima: avrei realizzato il sogno americano. Dopo aver inviato dei video quando ero ancora in Italia, sono stata accettata nella squadra e al mio arrivo ho subito iniziato la clinica di cheerleading, facevamo le prove dalle 8 di mattina alle 5 di pomeriggio. Poi una settimana dopo è iniziata la scuola e ho avuto allenamenti tutti i giorni dalle 14:30 alle 16:30. Ogni venerdì, durante le partite, animavamo gli half-time con le coreografie che avevamo preparato, facevamo le piramidi per intrattenere i presenti. Da luglio a novembre lo abbiamo fatto per la stagione di football, poi da novembre a febbraio per quella di basketball. È stato stupendo perché mi sono sentita subito inclusa nel team. Sarò sempre grata alle mie due coach per aver reso possibile tutto questo».
Cos'hai studiato a Overton?
«La scuola che frequento prevede che ogni giorno si frequenti sempre la stessa schedule, che corrisponde un po' al nostro orario scolastico. Stesse materie tutti i giorni, nello stesso ordine temporale. La mia schedule, all'inizio, prevedeva inglese, arte, geo-science, Ag food science, governo e matematica. I due studi più caratteristici sono stati arte e Ag. Al liceo classico, durante le ore di arte, si studiano i periodi storici, in America è completamente diverso. Fare arte significa creare. Io non avevo la minima idea di saper disegnare e pitturare, questa scuola americana mi ha fatto scoprire la mia creatività e le mie idee, che vanno oltre lo studio dei testi. La docente ci spiegava delle tecniche con cui avremmo fatto le opere e noi, in base alla creatività personale, sceglievamo come realizzare il progetto. Quando inviavo le foto delle mie opere a casa, i miei genitori o mia nonna quasi non credevano che le avessi fatte io. Per quanto riguarda AG food science è davvero una classe particolare: una volta a settimana andavamo nella fattoria del paesino e, divisi in gruppi di quattro, ci prendevamo cura di un giardino. Studiavamo come piantare, come fare crescere e far germogliare le piante, le tecniche per tagliarle, scoprivamo quali piante fossero indicate in quale periodo. Io, una ragazza di città, non mi sarei mai immaginata a coltivare un giardino! Invece è stato molto divertente. Abbiamo piantato le carote e abbiamo potuto portare a casa ciò che coltivavamo. "Imparare-facendo": questa è la filosofia scolastica in America. Non c'è una sola materia in cui ci si fermi alla teoria e si impari solo dai libri. Mi ricordo quando il giorno prima del test di governo abbiamo giocato con Kahoot e Game Kit per fare simulazioni».
Non solo scuola, ma anche rapporti umani. Quali legami hai costruito e porterai nel cuore?
«Ho iniziato il mio anno con una famiglia ospitante, nella quale mi sono sentita subito accolta. C'erano quattro sorelle, la mamma e il papà e con loro è andato tutto bene per i primi mesi. Poi ho iniziato a sentire una certa apprensione da parte della mamma. Io all'inizio, non conoscendo nessuno, stavo sempre a casa. Col tempo ho iniziato ovviamente a fare nuove amicizie, ho una relazione e questo fatto alla mamma provocava tensione. Avevo anche ansia a parlarle e a chiederle il permesso per uscire. Mi sentivo in trappola, proprio a livello mentale. È stata dura e sotto Natale ho iniziato ad avere problemi più seri, mi sono ammalata proprio nelle vacanze e ho capito che quello era il momento di rottura, mi sentivo abbandonata. Io e loro siamo molto diversi, ma questo fa parte dell'esperienza all'estero, in cui devi saperti adattare. A febbraio ho deciso di cambiare famiglia: dopo questo passo sono riuscita anche a riallacciare i rapporti con le mie sorelle, che resteranno sempre una parte fondamentale del mio anno all'estero. Sono state le mie prime migliori amiche prima di conoscere Sierra e Amarissa, le mie attuali migliori amiche americane con cui sto ogni giorno, a pranzo e la sera. Adesso sto vivendo con Amarissa e sua madre, che mi hanno accolto dopo un momento per me difficilissimo. In questa seconda famiglia ho trovato un tesoro: è come se ci conoscessimo da sempre. La mamma di Amarissa è diventata la mia migliore amica: mi porta a fare tantissime esperienze, con lei posso parlare di tutto, abbiamo le stesse vibes. Il nostro legame si è rafforzato ancora di più quando purtroppo è venuto a mancare mio nonno e loro due hanno saputo darmi un supporto incredibile. Per la graduation la mamma di Amarissa mi ha regalato un ciondolo con una foto di mio nonno da attaccare al cappello classico delle cerimonie americane. Per non parlare dei professori, che in America sono come degli amici: ho instaurato un bellissimo rapporto con tutti, mi hanno sempre spronato ad andare avanti e a fare del mio meglio. Ho conosciuto anche tantissime altre persone che porterò sempre nel cuore, ma le mie due migliori amiche e la mia seconda famiglia sono davvero speciali per me. Insieme al mio ragazzo, ovviamente, che ho conosciuto a una partita di football. Io cheerleader, lui football player, come nei film. È davvero un ragazzo dolcissimo, che mi ha aiutato a superare tanti brutti momenti. Spero che la nostra relazione continui anche in futuro».
La te che è arrivata in Nevada non è sicuramente la stessa te che si prepara a lasciarlo. Come hai vissuto le prime settimane e in cosa, oggi, ti senti diversa?
«La me che ha lasciato l'Italia è sicuramente diversa dalla me che sta per lasciare il Nevada. Qui ho ritrovato la mia voglia di vivere, le mie energie, la mia spensieratezza. Ma ho anche imparato a saper apprezzare le piccole cose, quelle di cui non ti accorgi quando sei intrappolato nella monotonia del quotidiano. Sicuramente ho anche imparato ad adattarmi, a essere più estroversa, perché qui in America devi essere tu a fare il primo passo per costruire delle relazioni. Poi ho imparato quanto sia importante la comunicazione efficace per mantenere i legami umani, soprattutto nel contesto familiare. La calma e la pazienza sono indispensabili per fare tutto: per integrarsi e sentirsi a proprio agio in un mondo completamente nuovo ci vogliono almeno due, tre mesi. Mi sento anche molto più fortunata: quando ho lasciato l'Italia sentivo quasi di non apprezzare più il luogo in cui vivevo, invece adoro la mia casa, la pulizia della mia stanza, il cibo che mamma mi prepara ogni giorno. Penso che l'insegnamento più grande, però, sia l'aver imparato a credere di più in me stessa. Se prima di partire mi avessero elencato le difficoltà in cui mi sarei trovata, non avrei mai lasciato l'Italia per un anno. Ma il fatto stesso di aver affrontato tutto da sola, potendo contare solo su me stessa, mi ha fatto scoprire quanto sono forte come persona. Le prima settimane sono state inevitabilmente dure. Ci sono state volte in cui chiamavo mia madre quando in Italia erano le quattro di notte. La ringrazio perché mi rispondeva anche a orari impensabili e mi ascoltava quando le raccontavo che non ce l'avrei fatta. Ma se ci ripenso adesso, sento di darmi una pacca sulla spalla».
I balli di fine anno americani e tutto ciò che vediamo nei film e nelle serie tv sono davvero come li immaginiamo? Com'è stato partecipare?
«La mia scuola, composta da 500/600 studenti (una scuola piccola per l'America), propone 4 balli all'anno. L'home-coming, il ballo di inizio anno, il cui dress code sono i vestiti corti. Qui sono i ragazzi a invitare le ragazze al ballo. La proposta avviene attraverso un poster accompagnato da cioccolatini, fiori. La ragazza, per rispondere, usa lo stesso metodo. Per il ballo d'inverno il dress-code era formale e in questo caso sono le ragazze a invitare i ragazzi. Poi abbiamo avuto il ballo di San Valentino, il cui tema erano vestiti rossi, bianchi o rosa. Anche in questa occasione sono le ragazze a proporre. Infine c'è il prom, il ballo di fine anno, il più atteso di tutti, in cui sono di nuovo i ragazzi a invitare le ragazze. La palestra che ospita i balli è tutta addobbata, ci sono il punch, il deejay, la musica, le luci. Se è come nei film? I primi tre non proprio, dopo un'ora diventano un po' monotoni. Non posso dire la stessa cosa per il prom, dove c'è il lento e c'è per tutta la serata l'attesa per l'elezione del king-prom e della queen-prom. Si eleggono anche il principe e la principessa del ballo».
Infine, che cosa porteresti della Puglia in Nevada e, viceversa, che cosa porteresti del Nevada a casa?
«Della Puglia porterei in America 3 cose: le tradizioni, il cibo e la pulizia. Anche loro hanno delle tradizioni, ma non sono come le nostre, fatte di anni e anni di storia. Sul cibo non ci sono paragoni: per noi anche l'enogastronomia è tradizione. Per l'ordine, invece, loro sono molto più "chill" rispetto a noi: non nel senso negativo, ma nel senso che c'è meno cura dei dettagli. Un esempio? I nostri pranzi di Natale sono caratterizzati dalla tovaglia rossa, le decorazioni e una serie di portate. Il pranzo di Natale americano è più semplice, niente tovaglia o addobbi, si prepara qualcosa da mangiare e si sta tutti insieme. Viceversa, del Nevada porterei in Italia la mentalità: se fossimo più aperti avremmo uno stile di vita completamente diverso. Porterei da noi anche il metodo di studio: sicuramente il sistema scolastico italiano prepara gli studenti ad affrontare i percorsi universitari che sono complessi, ma se alla teoria accompagnassimo l'experience come si fa in America avremmo un sistema in cui i giovani sono indiscussi protagonisti».