Condannati sei rumeni accusati di sfruttamento della prostituzione
Il rito abbreviato a conclusione di una indagine della Guardia di Finanza partita nel 2012
lunedì 23 marzo 2015
12.38
Riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, oltre ad una serie di episodi di spaccio di sostanze stupefacenti. Sono i capi d'imputazioni che hanno portato il Gup del Tribunale i Bari a condannare, con rito abbreviato, sei rumeni a pene che vanno dai 4 ai 9 anni di reclusione, disponendo anche il loro allontanamento dal territorio italiano a pena estinta, oltre al pagamento delle spese processuali e il loro mantenimento in carcere.
È l'epilogo di una inchiesta partita nel 2012 e che si è conclusa lo scorso anno, condotta dalla tenenza della Guardia di Finanza di Molfetta coordinata Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, che ha portato allo smantellamento di una cellula criminale italo- rumena che agiva tra Molfetta e Terlizzi, che teneva giovani ragazze dell'est europeo in condizioni di schiavitù, obbligandole all'esercizio della prostituzione. Alle indagini, per gli investigatori, è stato di fondamentale importanza l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche che hanno consentito di acquisire come elementi di prova a carico con particolari ritenuti agghiaccianti circa l'efferatezza degli imputati.
Le conversazioni tra le ragazze costrette alla prostituzione ed i loro padroni/sfruttatori hanno rivelato l'assoggettamento totale delle giovani donne, il loro metodico e quotidiano sfruttamento che garantiva significativi introiti parassitari agli aguzzini. Dalle intercettazioni è emerso che gli sfruttatori definivano le ragazze come "bagagli", appellativi che lascavano intendere tutto il disprezzo per la dignità personale delle vittime. Le ragazze, secondo quanto è emerso dalle indagini, erano portate in Italia con false promesse di matrimonio o di una vita migliore, ma una volta arrivate a destinazione, venivano private dei documenti e avviate alla prostituzione sotto il costante controllo degli sfruttatori.
Particolare ancora più agghiacciante è che gli aguzzini avevano "acquistato a tempo" le malcapitate. L'intento era quello di farle "lavorare" per 4 o 5 mesi per ricavare proventi economici da investire per acquisti immobiliari. Dopo averle "spremute" al massimo, le permutavano con l'acquisto di altre ragazze "più fresche". Gli sfruttatori, che riscuotevano lai totalità dei proventi del meretricio, controllavano ogni cosa: dagli orari di lavoro alle tariffe da richiedere per le prestazioni sessuali. Decidevano loro anche sulle semplici richieste delle ragazze, come quella di poter effettuare una ricarica telefonica o di acquistare una bottiglietta d'acqua. Erano costanti le minacce finalizzate a tenere le giovani costantemente sotto pressione, nella prospettiva di potenziare la loro produttività lavorativa. Sulla strada non erano ammessi ritardi, non erano consentite pause né tantomeno era possibile, per le ragazze, abbandonare, anche solo temporaneamente, il luogo di lavoro o perdere troppo tempo con i singoli clienti.
Insomma lo spazio di autodeterminazione delle ragazze veniva totalmente negato soprattutto quando si è trattato, come è stato accertato in un caso, di scelte delicate come quella di portare o meno a termine un'eventuale gravidanza. Vista la gravità dei capi d'accusa e i riscontri oggettivi confutati in aula, il Gup ha voluto comminare pene per complessivi 37 anni nonostante gli sconti di pena previsti per il rito abbreviato.
È l'epilogo di una inchiesta partita nel 2012 e che si è conclusa lo scorso anno, condotta dalla tenenza della Guardia di Finanza di Molfetta coordinata Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, che ha portato allo smantellamento di una cellula criminale italo- rumena che agiva tra Molfetta e Terlizzi, che teneva giovani ragazze dell'est europeo in condizioni di schiavitù, obbligandole all'esercizio della prostituzione. Alle indagini, per gli investigatori, è stato di fondamentale importanza l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche che hanno consentito di acquisire come elementi di prova a carico con particolari ritenuti agghiaccianti circa l'efferatezza degli imputati.
Le conversazioni tra le ragazze costrette alla prostituzione ed i loro padroni/sfruttatori hanno rivelato l'assoggettamento totale delle giovani donne, il loro metodico e quotidiano sfruttamento che garantiva significativi introiti parassitari agli aguzzini. Dalle intercettazioni è emerso che gli sfruttatori definivano le ragazze come "bagagli", appellativi che lascavano intendere tutto il disprezzo per la dignità personale delle vittime. Le ragazze, secondo quanto è emerso dalle indagini, erano portate in Italia con false promesse di matrimonio o di una vita migliore, ma una volta arrivate a destinazione, venivano private dei documenti e avviate alla prostituzione sotto il costante controllo degli sfruttatori.
Particolare ancora più agghiacciante è che gli aguzzini avevano "acquistato a tempo" le malcapitate. L'intento era quello di farle "lavorare" per 4 o 5 mesi per ricavare proventi economici da investire per acquisti immobiliari. Dopo averle "spremute" al massimo, le permutavano con l'acquisto di altre ragazze "più fresche". Gli sfruttatori, che riscuotevano lai totalità dei proventi del meretricio, controllavano ogni cosa: dagli orari di lavoro alle tariffe da richiedere per le prestazioni sessuali. Decidevano loro anche sulle semplici richieste delle ragazze, come quella di poter effettuare una ricarica telefonica o di acquistare una bottiglietta d'acqua. Erano costanti le minacce finalizzate a tenere le giovani costantemente sotto pressione, nella prospettiva di potenziare la loro produttività lavorativa. Sulla strada non erano ammessi ritardi, non erano consentite pause né tantomeno era possibile, per le ragazze, abbandonare, anche solo temporaneamente, il luogo di lavoro o perdere troppo tempo con i singoli clienti.
Insomma lo spazio di autodeterminazione delle ragazze veniva totalmente negato soprattutto quando si è trattato, come è stato accertato in un caso, di scelte delicate come quella di portare o meno a termine un'eventuale gravidanza. Vista la gravità dei capi d'accusa e i riscontri oggettivi confutati in aula, il Gup ha voluto comminare pene per complessivi 37 anni nonostante gli sconti di pena previsti per il rito abbreviato.