“Com’eri vestita”, torna a Molfetta la mostra contro gli stereotipi di genere

Visitata da studenti di scuole medie e superiori, la mostra ha fatto tappa il 5 e il 6 novembre nel chiostro della Fabbrica di San Domenico

giovedì 7 novembre 2024
A cura di Paola Loparco
Una domanda particolarmente odiosa che spesso viene rivolta alle donne vittime di violenza, dà il nome alla mostra itinerante che il 5 e il 6 novembre ha fatto nuovamente tappa a Molfetta. Organizzata e promossa dal Comitato per le pari opportunità dell'Ordine degli Avvocati di Trani, "Com'eri vestita" ha ridisegnato il perimetro del chiostro della Fabbrica di San Domenico per consentire ai visitatori di riflettere, ancora una volta, sulla spietata banalità del male.

Ideata nel 2013 nell'ambito di un progetto dell'Università del Kansas e portata in Italia nel 2018 grazie all'associazione culturale Sud Est Donne di Martina Franca, la mostra ha iniziato il suo tour nei comuni del circondario che fanno capo al Tribunale di Trani lo scorso 15 ottobre e, come spiega il presidente del Comitato Pari Opportunità, Domenico Facchini, si concluderà il prossimo 25 novembre a Trani, con un importante evento pubblico.

Come nasce l'esigenza di aderire a questo progetto ormai storico?

«Aderendo a quello che è lo spirito di fondo di questa mostra - spiega il presidente Facchini - abbiamo deciso di provare a suscitare una movimentazione di natura culturale che è quella soprattutto di eliminare gli stereotipi, di eliminare i cliché che talvolta caratterizzano gli episodi di violenza, in forza dei quali l'abbigliamento talvolta è ritenuto la causa della violenza stessa».

Come erano vestite queste donne, che hanno "prestato" i loro abiti alla mostra?

«Allora, queste donne erano vestite in maniera assolutamente normale. Quindi è proprio il concetto di normalità a suscitare una serie di riflessioni, perché in primo luogo dovrebbe c'è da chiedersi che cosa è la normalità. Gli episodi di cronaca generalmente e anche le didascalie che accompagnano questa mostra raccontano episodi di violenza avvenuti in contesti che si potrebbero definire assolutamente normali, che possono essere i contesti lavorativi, familiari. Questo per dire che le forme di violenza possono essere tante, non necessariamente sono forme di violenza fisica, possono essere anche di natura economica, verbale, però noi dobbiamo provare a smuovere questo modo di pensare e quindi l'idea di questa mostra nasce proprio dalla necessità di riflettere su quelli che sono i comportamenti quotidiani. Inoltre, nella consapevolezza che l'avvocatura ha una funzione sociale, che le viene riconosciuta e garantita dalla Costituzione, il Comitato per le pari opportunità punta ad evidenziare quanto l'avvocatura, nel suo piccolo e soprattutto con la sua competenza e con la sua qualificazione professionale, possa dare un contributo alla formazione degli individui della comunità in cui opera».

Perché è importante coinvolgere le giovani generazioni?

«Anche qui a Molfetta abbiamo coinvolto scuole medie e scuole superiori per invitare i ragazzi a riflettere, insieme con i docenti, su quella che è appunto l'idea di fondo della mostra. Siamo tartassati di giornate del ricordo, quando in realtà occorrerebbe fare un salto in avanti ulteriore rispetto al semplice ricordo. Occorrerebbe infatti riflettere anche su quegli episodi che caratterizzano il ricordo per provare a cambiare il nostro modo di pensare, il nostro modo di agire, perché il ricordo finalizzato a se stesso verosimilmente non porta a nulla. Se invece attraverso l'esperienza che si ricorda si prova a riflettere su quella che è la nostra vita quotidiana probabilmente potremmo riuscire a modificare, se sono da modificare, i nostri comportamenti. E il sacrificio delle tante donne vittime di femminicidio non sarà stato vano. Il tour della mostra proseguirà secondo calendario e si chiuderà a Trani, presso la Biblioteca storica dell'Ordine degli Avvocati, il prossimo 25 novembre, a partire dalle ore 15.30. Tra i diversi argomenti, durante l'evento si discuterà del linguaggio di genere, perché troppo spesso nel linguaggio comune si generano, diciamo così, delle forme di violenza che legittimano e alimentano la disparità di genere».